iii.

La politica del contagio

Come viene usata la metafora del contagio: viaggio negli effetti più subdoli della demagogia.

Nel 1987 la Yomo, ditta produttrice dell’omonimo yogurt, lancia sulle reti televisive nazionali italiane uno spot pubblicitario dal taglio quantomeno inconsueto: nei suoi trenta secondi circa, il testimonial del marchio — il comico genovese Beppe Grillo, del quale sono visibili solo la testa e parte del collo — fissa come in trance un punto indistinto al di sopra dell’inquadratura, che si restringe progressivamente sui suoi tratti.

Dopo qualche istante entra in sottofondo un’unica, acuta nota di sintetizzatore, seguita da una scritta in sovraimpressione sul fondale nero: “PUBBLICITA’ TELEPATICA” [sic], con un apostrofo che allora doveva fare molto Televideo. A circa due terzi della clip, l’espressione seria di Grillo diviene un ghigno malefico e il comico pronuncia la frase: “Provate a uscire a comprare qualcos’altro, adesso”, presto accompagnata da una seconda scritta che richiama il prodotto: “YOMO, FELICE DI PIACERVI”. 

Un quarto di secolo più tardi, nel 2012, il giornalista Giuliano Santoro avrebbe ricordato quella originale pubblicità in uno dei primi libri dedicati alla travolgente ascesa che aveva appena condotto Grillo a diventare uno degli uomini politici più influenti d’Italia, commentando: “[Nello spot] Si allude ai ‘persuasori occulti’ del noto saggio di Vance Packard contro la pubblicità e al tempo stesso si prende atto della regola aurea del business: basta accostare un Vip a un marchio per vendere, non servono tante parole.” Il bel testo di Santoro si apriva con una citazione da un romanzo di Walter Siti, Il contagio, che il giornalista indicava (non senza forzature) come l’analisi più accurata degli anni nei quali Grillo si era rapidamente imposto sulla scena politica — anni caratterizzati, a suo dire, dal “contagio tra lo spirito ‘selvaggio’ del sottoproletariato sprovvisto di coscienza di classe e l’arroganza di una borghesia alla ricerca di un ruolo.”

Il lavoro di Santoro finì per dimostrare involontariamente la persistenza della metafora del contagio nel discorso politico. Da un lato offriva un retroterra critico della propaganda “contagiosa” dell’allora leader del Movimento Cinque Stelle, contribuendo così a smontarne l’alone di magica inevitabilità; e dall’altro riaffermava l’appartenenza del “fenomeno Grillo” a una più profonda dinamica di contagio — da intendersi questa volta in un’accezione socioeconomica e ideologica che la scelta lessicale non sembrava in grado di esprimere del tutto.

Del resto, il comico genovese forniva quasi un caso di scuola per un’ipotetica sociologia politica del contagio: nel primo decennio degli anni Duemila, mandare in onda immagini degli eventi di piazza organizzati da Grillo — come i V-Day — era considerato poco meno che sovversivo, quasi che l’elettorato potesse venire contagiato dal suo populismo con la stessa velocità con la quale era stato spinto ad acquistare un certo yogurt. I primi rappresentanti in parlamento in quota M5S, dal canto loro, si rifiutavano persino di stringere la mano agli omologhi di altri partiti, come se fossero contagiosi.

Uno degli effetti più subdoli della demagogia consisterebbe precisamente nel far regredire i singoli soggetti a una schiera uniforme di burattini. 

La critica della demagogia vecchia e nuova ripropone regolarmente il nesso tra contagio e allucinazioni collettive: l’individuo manipolato dal demagogo viene descritto come qualcuno che versa in una condizione patologica che altera il suo senso della realtà, rendendolo allucinato; questo stato allucinatorio è tanto più pericoloso quanto più facilmente può trasmettersi, per contagio, da un individuo all’altro — solo allora l’allucinazione riguarderà una collettività, un insieme di persone. Il collettivo che subisce il fascino del demagogo, però, non è un gruppo qualunque, ma una massa disarticolata, una folla priva di significative differenze specifiche al proprio interno. Uno degli effetti più subdoli della demagogia consisterebbe precisamente nel far regredire i singoli soggetti a una schiera uniforme di burattini. 

Fu l’antropologo francese Gustave Le Bon a fornire, al termine del diciannovesimo secolo, la caratterizzazione più nota della folla irrazionale, basata sulla una sua presunta “unità mentale” — frutto a propria volta dell’annullamento della personalità cosciente, del predominio di quella inconscia e, immancabilmente, del “contagio dei sentimenti e delle idee in un’unica direzione.”

Nasceva così la psicologia delle folle: il successo dell’opera di Le Bon, così come di quelle quasi contemporanee di Gabriel Tarde e Scipio Sighele, fu tale che nel 1921 Sigmund Freud le avrebbe dedicato un’intera sezione di Psicologia delle masse e analisi dell’Io, dove la massa è descritta in quanto “straordinariamente influenzabile e credula”. Menzionando esplicitamente l’idea di contagio, il padre della psicanalisi chiariva di intenderla come tutt’altro che un vezzo letterario: “È un fatto che i segni percepiti di uno stato affettivo sono idonei a evocare automaticamente nella persona che li percepisce il medesimo affetto.” Tale “costrizione automatica” sarebbe aumentata d’intensità al crescere della numerosità del gruppo in cui l’affetto veniva osservato. 

Come ricorda la sociologa Sabina Curti, la psicologia della folle e la relativa nozione di contagio sociale rappresentano strumenti interpretativi marcatamente ascientifici, utilizzando i quali non si riesce a capire dove finisca l’individuo e dove inizi il gruppo, né perché i due livelli sarebbero tra di loro incompatibili (perché ad esempio non si possa far parte di una collettività a suo modo omogenea senza rinunciare alla propria singolarità, o perché possano trasmettersi per contagio solo impulsi irrazionali e non anche pensieri razionali).

Paradossalmente, il limite teorico di questa cornice interpretativa non le ha impedito di sopravvivere fino a oggi in forme differenti dalla conoscenza prodotta nell’ambito delle scienze sociali. La psicologia delle folle è ai nostri giorni soprattutto un’arma retorica, un presupposto tacito di certe visioni politiche, un pretesto per giustificare, per dirne una, una gestione dell’ordine pubblico improntata allo stato d’eccezione. Del resto solo pochi anni fa, analizzando i manuali utilizzati nella formazione dei Reparti mobili della polizia italiana, Enrico Gargiulo aveva rilevato come pullulino di riferimenti al contagio sociale e al modello della folla suggestionabile e tendenzialmente delinquente. 

La psicologia delle folle è ai nostri giorni soprattutto un’arma retorica, un presupposto tacito di certe visioni politiche, un pretesto per giustificare, per dirne una, una gestione dell’ordine pubblico improntata allo stato d’eccezione.

La perdurante valenza reazionaria del topos del contagio sociale è ben dimostrata da quanto accaduto in occasione dei cosiddetti riots inglesi del 2011: tre giorni di rivolte, saccheggi e incendi che fecero seguito alla (mai pienamente chiarita) uccisione a Londra di un uomo nero, Mark Duggan, da parte delle forze dell’ordine. La reazione dei media e dei partiti, di maggioranza come di opposizione, consistette nel bollare quegli episodi come esplosioni puramente criminali, durante le quali giovani vandali e pregiudicati di lungo corso avrebbero arraffato o distrutto qualunque cosa avessero avuto a portata di mano. Sull’Observer si poteva leggere un’intervista all’epidemiologo Gary Slutkin (fino ad allora occupatosi prevalentemente di colera, tubercolosi e AIDS) nella quale si affermava la solidità dell’equazione tra il diffondersi della violenza e il contagio dovuto a un agente patogeno. 

Nel suo studio sulla metafora del contagio, Peta Mitchell notava come per Slutkin parlare di epidemia rispetto alle rivolte inglesi non avesse una valenza retorica, ma puramente descrittiva: l’ondata di proteste era un’infezione vera e propria — il che faceva dei e delle manifestanti poco più che dei microrganismi patogeni contro i quali mobilitare la cura più efficace, magari dei linfociti-poliziotto in stile Esplorando il corpo umano. In realtà, analisi successive avrebbero mostrato come i disordini innescati dalla morte di Duggan si fossero sviluppati in maniera tutt’altro che illogica, partendo da aree urbane dove il razzismo sistemico delle forze di polizia e la scarsità di servizi pubblici erano alla radice di tensioni che avevano covato a lungo prima di manifestarsi. Si potrebbero fare discorsi analoghi per numerosi casi più o meno recenti, come le rivolte nelle banlieues francesi. 

Ciò che la metafora del contagio tenta subdolamente di fare è ridurre l’ideologia alla telepatia, la formazione della coscienza politica alla fascinazione subitanea esercitata da qualche capo carismatico. Così facendo, si finiscono per banalizzare le stesse, profonde implicazioni di certe forme di propaganda e indottrinamento. Già Hannah Arendt aveva intuito che il successo della propaganda dei regimi totalitari non era spiegabile con la demagogia (illudere la folla, o il popolo, che siano nel suo interesse cose che in realtà non lo sono), ma solo con la sua capacità di agire a un livello precedente, impedendo la formazione stessa di interessi percepiti come collettivi: “Nessuna propaganda basata sull’interesse materiale puro e semplice può avere efficacia fra masse che, essendo caratterizzate principalmente dall’estraneità a qualsiasi corpo sociale e politico, presentano un vero caos di interessi individuali.”

Ciò che la metafora del contagio tenta subdolamente di fare è ridurre l’ideologia alla telepatia, la formazione della coscienza politica alla fascinazione subitanea esercitata da qualche capo carismatico.

Volendo ribaltare l’immagine del contagio, si potrebbe dire che è proprio l’incapacità dei suoi componenti di contagiarsi, di comprendere ciò che eventualmente li accomuna, a produrre la folla di cui una vasta letteratura invita ad avere paura. Non è dunque un caso che Walter Benjamin insistesse sulla differenza fra la massa (a un tempo compatta e politicamente disunita, priva di una chiara visione comune) e la classe, i cui membri “obbediscono a una ratio collettiva.”

Forse, allora, il terreno di coltura dell’ideologia intesa come distorsione della realtà non coincide tanto con l’illusione riguardo i presunti superpoteri di questo o quel capo carismatico, né semplicemente con una visione superstiziosa e ascientifica della società. È invece al livello dell’errata percezione di sé — del proprio essere una classe senza una coscienza — che potrebbe annidarsi quell’elemento che il ricorso allo stratagemma del contagio sociale nasconde. Il critico culturale Mark Fisher lo affermava con impareggiabile chiarezza già nel 2006: le “masse” subalterne sono già molto più scettiche nei confronti delle élite di quanto non pensino certi progressisti “illuminati” che pretendono di renderle edotte. Ciò di cui mancano “è la convinzione che i loro pensieri e le loro parole contino, che sono loro le uniche a poter produrre il cambiamento.”

La più grande delle illusioni collettive potrebbe allora rivelarsi essere una dis-illusione, la proiezione su di sé di un’inferiorità politica che — notava sempre Fisher — non può venire banalmente confutata a livello empirico, perché finisce per produrre la propria stessa conferma, in una sorta di profezia che si autoavvera: non possiamo cambiare la società perché siamo collettivamente impotenti e pertanto la società rimarrà la stessa, confermando retrospettivamente la nostra impotenza.

L’ascesa e il declino di Beppe Grillo non dimostrano forse il fallimento dell’idea, tipicamente piccolo-borghese, che la politica nazionale possa essere amministrata come un condominio, che basterebbe uno sparuto numero di persone “come noi” per farla tornare a funzionare — che, in sostanza, la si possa condurre bypassando completamente la sfera delle identità collettive “forti” in favore dell’appello a nozioni morali minime, come quella di onestà? (La Yomo, dal canto suo, fu acquisita nel 2004 dalla Granarolo dopo traversie finanziarie dalle quali evidentemente la pubblicità telepatica non era riuscita a salvarla.) 

Una delle (pochissime) conseguenze positive della pandemia globale ancora in corso (di un contagio, per dirla con la scrittrice statunitense Susan Sontag, che è malattia molto più che metafora) è la graduale scomparsa dal discorso pubblico della nozione di post-verità come parola d’ordine per stigmatizzare la presunta credulità della maggioranza della popolazione.

Come la campagna vaccinale in atto sta dimostrando, il fatto che le persone siano spesso sospettose nei confronti delle intenzioni e delle strategie comunicative delle case farmaceutiche e dei governi non implica che vogliano rinunciare stupidamente alle cure, o che pensino di potersi immunizzare da un virus con qualche scongiuro apotropaico.

In un’importante ricerca apparsa pochi mesi fa sotto l’emblematico titolo di Non siamo natǝ ieri, lo psicologo sociale Hugo Mercier ha raccolto un’imponente mole di dati a sostegno della tesi che le masse siano assai meno facili da abbindolare di quanto si vorrebbe — e che i tentativi più o meno demagogici di far loro prendere per vere informazioni false falliscono il più delle volte. Il cittadino medio, sostiene Mercier, è piuttosto abile nell’individuare quali siano, in un dato ambito, le figure portatrici delle conoscenze più rigorose e plausibili. Ne deriva che l’ideologia non possa venire combattuta semplicemente a colpi di fact-checking, e che certe posizioni politiche turpi siano magari dettate, più che dall’accettazione ignorante di qualche falsità, dalla voglia di credere a ciò che sappiamo (o almeno sospettiamo) non essere vero — so bene che i neri non sono peggiori dei bianchi, ma vivere in contesto strutturalmente razzista mi fa comodo. 

Si giunge così alla situazione odierna, in cui la classe (che ovviamente non possiamo più intendere in modo strettamente economicistico, ma richiede un’analisi intersezionale) resta — nelle parole del filosofo Sandro Mezzadra — senza nome, o con troppi nomi per accorgersi di essere una collettività in potenza. Non c’è allucinazione collettiva più urgente da smantellare di questa.

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