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Breve storia del futuro

Spogliato dalla sua identità ottimistica, quello nel futuro resta l’unico credo possibile da porre a fondamento dell’azione collettiva

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Molti secoli fa, prima che ci facessimo un’idea scientifica sulla genesi dell’universo, eravamo convinti che tutto avesse origini divine. Pensavamo che il mondo del presente non fosse diverso da quello del passato e che non sarebbe stato diverso da quello del futuro.

Non eravamo poi così interessati alle invenzioni, alle scoperte, al commercio, o all’apprendimento; ci preoccupavano piuttosto le forze naturali, che potevano mettere a rischio la nostra vita o garantirci un raccolto ricco e prospero. Queste forze naturali, dall’andamento ciclico, ci indussero a pensare che il mondo sarebbe rimasto pressoché immutato nel corso degli anni. Non avevamo ragione di pensare che il futuro sarebbe stato diverso dal presente.

Secoli dopo, quando ormai il nostro interesse verso la natura umana aveva superato quello per il mondo naturale, la convinzione che le società fossero immutabili non smise di esistere. Lo storico Robert Heilbroner cita Machiavelli, che nel XVI secolo scrisse: “Chiunque cerca di anticipare il futuro dovrebbe consultare il passato; gli eventi umani ricalcano sempre quelli già avvenuti in precedenza. Questo deriva dal fatto che tali eventi sono frutto dello sforzo di uomini che sempre furono, e sempre saranno, animati da simili passioni, e che pertanto otterranno risultati altrettanto simili”.

“La visione del futuro tra gli uomini dell’antichità era una visione di rassegnazione”

Oggi definiamo il profeta come una persona in grado di “vedere oltre”. Gli antichi invece non erano particolarmente interessati a sapere cosa sarebbe successo nel futuro, tanto meno a influenzarlo o determinarlo. Come scrive ancora Heilbroner, “la visione del futuro tra gli uomini dell’antichità era una visione di rassegnazione”.

Nonostante il termine profezia venga usato spesso ancora oggi nei titoli dei film e i nostri database abbiano nomi come Oracle e Delphi, non abbiamo prove che i profeti e gli oracoli del passato siano stati leader visionari che aiutarono a definire il futuro delle loro società.

Prima di capire cosa ci riserva il futuro, e prima ancora di metterci a costruirlo, cerchiamo di capire come la nostra idea di futuro si sia evoluta nel corso dei secoli. Per iniziare, potremmo tracciare due linee di pensiero in opposizione tra loro: quelli che credono nella stasi – l’idea che la società umana resti uguale con il passare degli anni e l’avvicendarsi delle generazioni – e quelli che credono nel progresso

Non sono queste però le uniche due visioni culturali possibili. Il poeta greco Esiodo, per esempio, anziché rassegnarsi all’eterno presente, descriveva le persone del suo tempo come ultimi alfieri di un periodo di declino, la cosiddetta età del ferro – l’ultima e più basilare delle età umane. C’è poi un’altra visione, che ammette l’esistenza di cicli che a lungo termine tendono alla stasi, ma riconosce l’alternarsi di momenti di progresso e di regressione. 

Tuttavia, la differenza tra il credere in una condizione di stasi o una di progresso – secondo la quale il mondo tende a un miglioramento graduale e incrementale – è la differenza essenziale tra modi di vedere il futuro. Una differenza che ha a che fare con l’idea del futuro come qualcosa che possa essere costruito collaborativamente, grazie alla cooperazione tra i membri della società.

In epoca classica, ma anche nelle epoche precedenti, non era davvero possibile credere che il mondo si trovasse in una condizione di staticità assoluta e totale. Il cambio delle stagioni causava evidenti trasformazioni nel corso di uno stesso anno, e l’inverno poteva essere migliore o peggiore di quello precedente, il raccolto più o meno abbondante. Ma era convinzione diffusa che la nostra esistenza fosse generalmente statica, il suo equilibrio solo occasionalmente perturbato da guerre o disastri naturali. Non ci si chiedeva se le società stessero migliorando o regredendo, e non esisteva un reale concetto di progresso.

Forse ispirati dall’avvicendarsi delle stagioni e dal ritorno dei disastri naturali, Platone e Aristotele descrissero la società come ciclica. Nelle Leggi di Platone e nella Politica di Aristotele si racconta del passaggio sociale dall’unità familiare alla città-stato come di un passaggio che genera la consapevolezza politica dietro all’idea stessa di “umana eccellenza”.

Una consapevolezza che però non racchiude ancora l’idea di progresso, dato anche che quella in vigore al tempo viene considerata la migliore tra le alternative possibili di governo. Per Platone e Aristotele, inoltre, le città-stato non sono destinate a durare: la società non ha ancora raggiunto una forma di stabilità assoluta, ma ha un andamento ciclico.

Nella sua Repubblica, Platone descrive il prototipo di una società ideale, ponendo di fatto le basi del pensiero utopico che ci avrebbe permesso di immaginare società migliori. Eppure Platone credeva che nessuna società – nemmeno quella da lui così accuratamente descritta – fosse immune al collasso, o in grado di progredire all’infinito.

Il primo grande filosofo antico a rifiutare la visione ciclica della società, sostituendola con una visione lineare, fu Sant’Agostino. La visione ciclica, infatti, non andava d’accordo con la visione cristiana.

Sant’Agostino sosteneva che l’avvento di Gesù Cristo sulla Terra e la sua resurrezione fossero stati eventi eccezionali. Altri filosofi cristiani cercano di confutare questa visione, sostenendo invece che i due accadimenti fossero parte di un ciclo ricorrente e infinito. Le loro idee finirono però per essere considerate eretiche, e alla fine la visione proposta da Sant’Agostino divenne quella dominante.

Anche questi eventi “unici” – l’avvento di Cristo e la sua resurrezione – tuttavia, pur generando una qualche forma di miglioramento, non incorporavano una visione specifica di progresso terreno, inserendosi piuttosto nell’idea di crescita spirituale sostenuta dallo stesso Agostino. 

L’idea che le nostre condizioni sociali migliorino progressivamente con l’avanzare della storia si diffuse solamente durante l’Illuminismo, nel XVIII secolo.

L’Illuminismo fu preceduto da secoli caratterizzati da incredibili scoperte scientifiche, a partire da quelle di Copernico in campo astronomico che, unite a quelle di Galileo Galilei e Johannes Kepler, tracciavano una nuova relazione tra noi e l’universo—una in cui né la Terra né il genere umano erano più al centro di tutto. 

Il lavoro di questi scienziati, insieme a quello di Isaac Newton, mostrò anche un’altra cosa: che la collaborazione tra gli esseri umani era in grado di produrre nuovi potenti modelli del mondo e di svelarne il funzionamento. 

Fu subito chiaro come il metodo scientifico fosse uno straordinario mezzo di apprendimento. Queste scoperte, così sensazionali, resero sempre più difficile pensare che il mondo ai tempi dell’Illuminismo fosse rimasto lo stesso di tanti secoli prima.

Così, gli autori illuministi cominciarono a ragionare più a fondo sull’idea di progresso. Tra loro c’era l’economista Adam Smith, secondo cui le economie – se guidate dalla “mano invisibile” del mercato libero – sarebbero state in grado di migliorare continuamente. 

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Nel XIX secolo, due importanti pensatori descrissero il processo di opposizione come anima del progresso. Georg Hegel, con la sua idea di sviluppo ideologico attraverso la guerra tra gli stati nazione, era uno dei due. L’altro fu Karl Marx, che descrisse l’ascesa del capitalismo e predisse l’arrivo del comunismo attraverso il conflitto storico.

L’idea di progresso è cambiata dall’Illuminismo a oggi, e ne potremmo parlare per ore. Chiaramente, Smith e Marx non erano d’accordo su come il progresso storico e sociale sarebbe arrivato e nemmeno su cosa significasse migliorare la società. Eppure, anche una breve analisi del pensiero illuminista è sufficiente per mostrare che l’idea di stasi, di una società essenzialmente ferma nel tempo, fosse ormai stata soppiantata nel pensiero comune.

Nel XX secolo, tuttavia, alcune correnti di pensiero cominciano a confutare l’idea di progresso sociale. Questo perché, a fronte di alcuni evidenti miglioramenti nella vita quotidiana – benché non universalmente distribuiti – come la disponibilità di beni o l’accesso a cure mediche, il Novecento è stato segnato anche da tremendi genocidi e da una diffusione senza precedenti di conflitti su larga scala. Inoltre oggi siamo più numerosi che mai e dobbiamo affrontare enormi catastrofi ambientali che, peraltro, abbiamo causato. 

Chiunque si fermi a riflettere sul futuro, oggi, difficilmente potrà accettare la vecchia visione ottimistica introdotta dal pensiero illuminista. Per quanto tetre le sfide future e negative le prospettive, però, non cambia la sostanza delle domande iniziali.

Come si forma la nostra idea di futuro? La nostra società è statica? Siamo germogli seminati dagli déi in un mondo che non cambia mai? Oppure nulla è immutabile ed è probabile che ogni cosa cambi—speriamo in meglio? 

Solo ponendo a fondamento l’idea che il futuro sarà diverso dal presente possiamo iniziare a pensare a come costruirlo, a quale forma dargli.

Anche rinunciando all’idea ottimistica di continuo avanzamento scientifico, di crescita economica a tutti i costi, di conflitti di idee in grado di generare società rivoluzionarie e più eque, possiamo continuare a credere che il futuro non sarà soltanto una ripetizione del passato, e che non sarà determinato dal volere degli déi.

Solo ponendo a fondamento l’idea che il futuro sarà diverso dal presente – come fecero gli illuministi – possiamo iniziare a pensare a come costruirlo, a quale forma dargli.

Anche se non condividiamo al cento per cento la vecchia visione ottimistica, il concetto di progresso basta da solo per dirci che cambiare e migliorarsi è possibile. È un punto di partenza, perlomeno, da cui sviluppare un’idea di costruzione del futuro.

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