iii.

Non c'è al mondo primavera

Ci sono vite che valgono meno di altre, ma non si può dire; la società non le protegge, e si protegge tacendo.

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Nei primi anni Cinquanta l’antropologo Ernesto De Martino va incontro alla Lucania partendo da Roma, che a ogni ora d’auto si allontana di un secolo. De Martino vuole raccogliere le ultime voci di una civiltà orale che inizia a dissolversi: sui monti lucani non si scrive ma si canta, specie ai bambini. Si cerca di addormentarli nonostante il freddo e le bestie; le madri e i padri, arrivati all’età che precede la morte, cantano la vita non vita.

Quando io nacqui
Mia madre non c’era
Era andata a lavare le fasce
La culla che mi doveva cullare
Era di ferro e non si dondolava
Il prete che doveva battezzarmi
Sapeva leggere e non sapeva scrivere

Se nasci nella catastrofe, nasci al contrario. De Martino e i suoi chiedono a Caterina Guglia quando sia nata, ma lei non lo sa—ha quasi cent’anni, è nata l’anno del terremoto e canta:

Quando io nacqui
Mia madre morì
Morì mio padre il giorno dopo
E anche la levatrice morì
Mi andai a battezzare
Nessuno attorno

Questa ninna nanna veniva cantata a Raffaele Simonetta, il futuro direttore della Centrale Nucleare di Trisaia (Matera), che intervistato dai giornalisti dichiarerà: “quell’impianto è una bestia maledetta”. Troppo tardi, però: è la fine degli anni Settanta e l’incidente c’è già stato. Il tubo di un pozzetto di sicurezza del Centro Ricerche Enea ha iniziato a gocciolare, da lì al pozzetto per le acque piovane; il rivolo radioattivo è sceso lungo il perimetro nordorientale del centro e si è mescolato al fiume Sinni. Nella zona si coltiva da secoli, si alleva bestiame. Per trovare la zona d’irraggiamento ci vogliono tre settimane. Una volta trovata, la squadra di manutenzione scava la terra contaminata senza indossare tute protettive e guanti.

Camillo Mazziotta, un operaio sessantenne, fa parte di questa squadra. Tornato dalle ferie, gli viene ordinato di trovare il tubo guasto tra i mille che si incrociano tra le fondamenta della Centrale. “Allora ho preso l’elmetto, gli stivaloni, la maschera, la tuta e mi sono avventurato sotto il pavimento dell’impianto. C’è un’intercapedine di 80 centimetri e una serie di cunicoli dove passano tubazioni, cavi elettrici, ecc. I cunicoli erano tutti allagati, e c’era rischio che alcuni cavi scoppiassero. Ho esplorato la sala controllo, i corridoi, fino alla piscina dove sta l’uranio”.

Dopo cinque anni di fanghi tossici e cantieri di emergenza e “piscine dove sta l’uranio”, Mazziotta collassa. Lo portano a Taranto e all’ospedale gli aprono il torace e non ci trovano nulla. Un altro dei lavori a cui prende parte Mazziotta è la pulizia delle vasche di stoccaggio dove coagula il liquame radioattivo. Vanno pulite spesso dalle alghe, che con il tempo si stanno ingigantendo, e così fanno le cozze e i mitili. Gli effetti di virus e radiazioni sono più appariscenti delle loro cause: non lontano dalla centrale nascono vitelli bicefali, capri senza l’ano, maiali malati di tumore.

A nessuno interessa il destino dello Pseudo-Mazziotta perché è un anziano degli anni Settanta lucani, e ha vissuto solo, e per scavare buche.

La verità è che l’uomo può anche trasformare la natura, ma è condannato al suo destino animale. Verità anche più fulgida, di Mazziotta non frega niente a nessuno. Perfino nel reportage di Tommaso D’Elia e Mansueto Rago, apparso in un Frigidaire del 1983, il suo cognome è quasi sempre Mazziotta, ma a volte Mazzotta. Su internet non si trova niente. A nessuno interessa il destino dello Pseudo-Mazziotta perché è un anziano degli anni Settanta lucani, e ha vissuto solo, e per scavare buche. Ci sono vite che valgono meno di altre, ma non si può dire; la società non le protegge, e si protegge tacendo. Ai vecchi restano le canzoni per addormentare i bambini:

Sto a questo mondo come non ci stessi
Mi hanno messo nel libro degli spersi

Nessuno attorno

L’invisibile aveva ammalato lo Pseudo-Mazziotta. Mancava ancora qualche anno all’esplosione del quarto reattore della Centrale V. I. Lenin, e qualche anno in più alla storia orale del disastro raccolta da Svetlana Aleksievič, giornalista investigativa e scrittrice. Leggendo il suo Preghiera per Chernobyl’ si scopre che in un villaggio bielorusso, a metà del secolo, i ragazzini spogliavano i bambini e li ammucchiavano tra loro, come facevano gli adulti la notte. “Erano i primi bambini nati dopo la guerra. L’intero villaggio seguiva tutto ciò che li riguardava, le parole che avevano imparato a dire, quando avevano fatto i loro primi passi, perché a causa della guerra ci si era troppo a lungo dimenticati dei bambini. Aspettavamo tutti che la vita riapparisse. Anche noi volevamo vedere l’apparizione della vita…”

Quindi uno psicologo che si chiama Pëtr, senza fermarsi, racconta di quando pochi anni prima aveva visto una donna ammazzarsi. Era nascosta in un cespuglio e si spaccava la testa con un mattone: era rimasta incinta di un poliziotto al servizio dei tedeschi, “odiato da tutto il paese. E, sempre da piccolo, ho anche visto come nascono i gattini”. E i ricordi continuano, ho tirato fuori il vitello dalla vacca, ho portato la scrofa alla monta, mio padre quando l’hanno ucciso aveva un maglione fatto da mia madre, l’abbiamo seppellito di fronte a casa nel campo di barbabietole.

Pëtr non capisce ancora perché la nascita e la morte, da bambino, gli sembravano una cosa sola. Ogni giorno la vita usciva dai corpi, fino a ucciderli. Gli uomini del villaggio erano tutti morti, o al fronte, i cavalli scomparsi, e restavano le donne ad arare i campi. Donne da soma tanto sfiancate che nelle saune del paese toccava trattenere gli uteri prolassati con gli stracci.

Un altro di quei canti lucani dell’anti-nascita faceva:

Quando io nacqui
Il mare più profondo si asciugò
E per quell’anno
Non ci fu al mondo primavera
Quando io nacqui
Si oscurarono le stelle
E il sole cessò di risplendere

Nel nostro passato abbiamo già vissuto anni senza primavera, così come succede oggi: in queste condizioni di preti analfabeti e culle di ferro, di nascite al contrario, è auspicabile avere qualcuno attorno.

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Forse è questo il vero dettaglio repellente delle immagini che, volenti o no, ci arrivano dagli ospedali oggi, dalle case di riposo, le terapie intensive. La solitudine disgustosa del malato, che molti di noi hanno potuto vivere, in prima o seconda persona. Non bastasse, il malato anziano deve scontare tutta la pena per il suo reato e il suo schifo, cioè l’età che osa portarsi addosso.

Nel nostro passato abbiamo già vissuto anni senza primavera, così come succede oggi.

Il 6 marzo 2020 la Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva ha diffuso un pdf di sei pagine, si chiama Raccomandazioni di etica clinica – In condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili. In una situazione straordinaria, spiega l’introduzione del documento, urge aggiornare i criteri di accoglienza su parametri “di giustizia distributiva e di appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate”.

La carenza delle risorse sanitarie porta allora a tutelare i pazienti con “maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare ‘la maggior speranza di vita’”. Le nonne delle ninne nanne, i vecchi inutili come lo Pseudo-Mazziotta vivono nella minima speranza di vita, soprattutto se per sperare di vivere hanno vissuto lavori usuranti. Devono fare spazio.

I curanti, il documento così li chiama, spesso non sono preparati ad adottare questi criteri emergenziali, “per cultura e formazione”. Dopo anni di speculazione apocalittica, eziologia della fine del mondo, ecco che il presente comanda una nuova coreografia di comportamenti: è il momento di una nuova cultura, di una nuova formazione. La fine del mondo, locale e soggettiva come le altre, prende la forma di una “polmonite interstiziale caratterizzata da ipossiemia severa: l’interstiziopatia è potenzialmente reversibile, ma la fase di acuzie può durare molti giorni”.

Di fronte a questo pdf, le biblioteche di etica e morale prendono fuoco; il linguaggio tecnico si fa di vetro perché non ci siano appigli, nessuna confusione tra vita e non vita.

Speranza di vita

All’epoca l’incidente di Trisaia venne battezzato una “piccola Hiroshima”. Se Trisaia però è uno starnuto, Hiroshima è una pandemia. Nel suo Diario di Hiroshima Michihiko Hachiya, il direttore di un ospedale poco lontano dall’epicentro, racconta l’esplosione della bomba sulla città dal giorno zero all’ottobre del 1945.

“L’educazione è solo una crosta, una doratura. Qualunque sia l’educazione che ha ricevuto, il suo carattere vero l’uomo lo rivela nei momenti difficili, e la vittoria spetta al più forte”. Difficile tracciare una linea tra vita e non vita, e impossibile citare delle pagine che fino a qualche mese fa non sarebbero state inappropriate. Ora lo sono.

“L’educazione è solo una crosta, una doratura. Qualunque sia l’educazione che ha ricevuto, il suo carattere vero l’uomo lo rivela nei momenti difficili, e la vittoria spetta al più forte”.

Leggendo il Diario di Hiroshima si impara che nella prima linea d’emergenza ognuno deve fare quello che sa fare. Hachiya sa fare tutto – senza doverlo dire – e nella stessa pagina lo si vede raccogliere le ceneri e le ossa di un’amica per portarle “all’altare posto nell’ufficio amministrativo”, smontare gli elettrodi di alcune batterie scariche e lavarle dall’acido, fino a trasformarle in contenitori per le viscere dei pazienti; svenire quasi per una ferita alla coscia che tarda a guarire, esaminare dei vetrini al microscopio. La sua vista funziona ancora, invece “quelli che guardavano l’aeroplano hanno avuto la retina ustionata”.

Il male si nasconde anche nella luce più piena, e perfino nel grembo. Il male oscuro, il romanzo autobiografico di Giuseppe Berto, inizia subito nella congettura più sconcertante: il conflitto del figlio con il padre è tanto radicato nell’incesto biologico che il figlio inizia a dubitare della sua volontà di venire al mondo. “E questo sì che sarebbe straordinario, dato che comporterebbe la formazione di una coscienza e di una volontà ancorché embrionali in me stesso allo stato di feto, la qual cosa immagino io è piuttosto rara”; e più avanti, sempre nel flusso del pensiero ossessivo sul padre, “forse non voleva mettere al mondo un figlio in quel momento, o non ci pensava, e quanto a me io ho sempre preferito la non vita alla vita, perciò è inutile discutere. Ecco che questo vincolo che ci unisce è piuttosto casuale”.

Il primo a mostrare all’umanità la membrana tra vita e non vita è stato Lennart Nilsson, fotografo e scienziato svedese il cui lavoro avrebbe sconvolto il dibattito sull’aborto, sul corpo della donna, sui corpi in generale. I primi soggetti scattati negli anni Sessanta da Nilsson e finiti sulla copertina di LIFE erano in realtà degli aborti, spontanei o meno, fluttuanti in una vasca che simulava il grembo materno.

Nilsson ha poi lavorato sulle foto, le ha migliorate, tanto che nel 1990 LIFE ne ha pubblicato una versione aggiornata. Il feto ora è ben visibile nella sospensione amniotica e non ci sono trucchi di montaggio. Il primo agosto la rivista esce con una copertina che riesce a superare l’originale: l’Unione Sovietica sta crollando e Chernobyl è sempre più lontana, come il terrorismo a venire, e le pandemie globali. Il feto galleggia nella non vita insieme a uno strillo che copre tutta la pagina: THIS IS HOW LIFE BEGINS.

Io sono nato il giorno prima, in un ospedale, con i miei genitori attorno.

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