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La poesia della catastrofe

Quando il linguaggio è complice degli orrori della realtà, come può la poesia trovare la voce per raccontare il disastro?

Quando pensiamo alla “letteratura della catastrofe”, ci verrebbe naturale riporla sullo scaffale dei mondi immaginari, confinandola in uno scenario dominato perlopiù dal potere della fantasia e della narrazione distopica. La poesia del disastro, tuttavia, non coincide necessariamente con una visione di questo tipo.

La distopia evoca realtà immaginate; il disastro invece è qualcosa di concreto, che coinvolge anche il campo semantico della fine. In questo contesto la poesia ha registrato l’emergere di un linguaggio poetico disincarnato, che, tramite un processo molto simile al disfacimento chimico, si muove nella direzione dell’assottigliamento semantico, fino a perdere di vista l’obiettivo un tempo centrale della parola: il significato.

Durante la seconda metà del XX secolo in Europa nascono i primi movimenti sperimentali e neo-avanguardistici, come il Gruppo ’63 in Italia e l’OuLiPo, “Ouvroir de Littérature Potentielle”, in Francia. Smarrito ogni senso di coerenza e razionalità come conseguenza dei drammi del Secondo conflitto mondiale, questi movimenti fondano la loro poetica sull’uso di nozioni matematiche nella letteratura. L’intento di questi gruppi sperimentali era fondare un nuovo senso esistenziale nelle discipline scientifiche e matematiche, in quanto il linguaggio – prodotto dell’umano – era da considerarsi come co-partecipe degli orrori del Novecento.

Questo approccio ha generato una progressiva dissoluzione semantica del linguaggio poetico tradizionale; ha comportato anche la creazione di nuovi campi semantici ibridi e non più solo letterari, di un nuovo e raffinato sistema lessicale e grammaticale, e di originali forme di composizione poetica. A emergere era quindi una nuova civiltà poetica – e non – che sentiva l’esigenza di un rinnovamento profondo, a partire dagli strumenti conoscitivi con i quali si tenta di interpretare la realtà.

Preso atto di questo mutamento di paradigma nei confronti del reale, come può la poesia rendere linguisticamente la dimensione catastrofica? Quale lingua-idioma può tradurre l’esperienza della catastrofe in poesia? La resa linguistica non potrà che riflettere la dismisura e l’aggressività di una natura in continua fibrillazione attraverso fonosimbolismi, vibrazioni foniche, echi sillabici e deformazioni grafiche.

È evidente come la letteratura non possa assumersi alcun compito di redenzione nei confronti delle catastrofi generate dalla Storia, ma – ed è proprio questo l’intento dell’OuLiPo – può porsi come creatrice di mondi possibili nei quali garantire la sopravvivenza di ciò che resta di umano. Pur avendo pochi punti di contatto stilistici con l’OuLiPo e distaccandosi apertamente dalla banalità provocatoria della neoavanguardia che, a suo dire, aveva finalità puramente ludiche, il poeta veneto Andrea Zanzotto (1921-2011) ha saputo contribuire a questa componente utopica di creazione di nuovi mondi in modi inaspettati e peculiari.

Nel contesto italiano, Zanzotto è stato uno dei poeti più sensibili alla tematica della catastrofe ambientale e ha saputo cogliere in questo disfacimento geologico-terrestre una possibilità di ri-costruzione e di ri-creazione della parola poetica.

Poeta ambientalista, la sua poesia è attenta a registrare le metamorfosi di un paesaggio infetto, che si lascia cogliere dallo sguardo di un io lirico sempre più rarefatto, come lo stesso territorio che lo accoglie. Sono tre le parole zanzottiane che vorrei ripercorrere per tentare di ridefinire nuovi spazi di realtà, validi allora come forse ancora di più oggi:

Meteo – Ticchettio – Papavero

Meteo

Meteo è il titolo di una raccolta di Zanzotto pubblicata nel 1996 e che rimanda al greco “tà metéora”, ovvero “le cose che stanno in alto”. Il Meteo di Zanzotto è un paradigma meteorologico che parla del paesaggio reale popolandolo di immagini botaniche, come “esantemi” [eruzioni cutanee umane il cui etimo però rimanda alla fioritura della piante, nda], “la città di papaveri” e “topinambur”. La lirica della natura viene quindi assorbita da una meta-lirica del paesaggio.

Le poesie di Meteo sono strutturate seguendo una sequenza ridotta a frammento appiattito e filtrato – come la realtà – con una continua messa da parte e indebolimento identitario. Anche il linguaggio non segue più una struttura sintattica lineare, ma è statico e privo di movimento, come la realtà catastrofica imbrigliata nel suo stesso disfacimento che viene narrata. Lo stile, di conseguenza, è apertamente nominale, privo di azioni e presenza di verbi.

In Meteo il paesaggio e i luoghi sono del tutto irreali e connotati da una virtualità straniante, vista attraverso una prospettiva che si colloca in posizione di lontananza e distacco. Ne risulta un panorama astratto, quasi mentale, pieno di punti di fuga. Il colore dominante è il grigio, che crea un’atmosfera indistinta — come lo zapping del telecomando. È il riflesso di una mente del tutto appiattita dalla passività dell’essere che rende nebulosa e priva di contorni ogni forma del reale.

Nella poetica di Zanzotto, la natura ha subìto un processo di trasformazione incorporando gli orrori della storia: dal disastro di Chernobyl alle stragi della ex-Jugoslavia negli anni Novanta. Il paesaggio, aggredito all’interno di un ecosistema sconvolto, inizia a corrompersi e a sfaldarsi. I disegni di Giosetta Fioroni che accompagnano queste poesie sono le tracce, i relitti di sopravvivenza, segni-residui di un paesaggio infetto che si lascia dissipare da una natura “follemente invasiva”.

Il paesaggio descritto in Meteo risulta connotato dall’inquinamento, da acidi, spray, zanzare tigri, ticchettii radioattivi, esantemi, sangue e pus e trova un corrispettivo linguistico in una parola che si dà in diretta, in un vocabolario teso sempre più verso l’omologazione e il collasso, dove i sostantivi sono esposti a pulsioni impossibili da controllare.

Ticchettio

La seconda parola zanzottiana che ho scelto è ticchettio. Il termine dà il titolo a due diverse poesie di Meteo – “Ticchettio I e II” – e si riferisce al suono dei contatori Geiger, strumenti che rilevano la radioattività nell’aria, come quelli che si sentono in una scena qualsiasi della serie tv Chernobyl.

Ticchettio I di A. Zanzotto (da Meteo, 1996)

L’estenuante rumore di fondo dei ticchettii arriva a inquinare anche la percezione visiva dei cromatismi naturali. Nei versi di Zanzotto l’oro dell’estate solare si trasforma in “dolceoro”, poi in “oriruggine similori e ori”, indicando come anche il sole inquini i colori della natura con i suoi raggi ormai divenuti anch’essi radioattivi:

Ticchettio II di A. Zanzotto (da Meteo, 1996)

Questa mutazione semantica verso l’insignificanza conclude così una parabola cromatica esito di una metastasi nucleare che corrode e contamina indistintamente natura e lingua. In questa totale contaminazione, il significante si raddensa e stratifica, rivendicando la propria estraneità al soggetto. A emergere è quindi una “protoscrittura” che trasforma il cromatismo in qualcosa di tattile e materico: graffio che si incide sul foglio, un elemento che si intensifica nei disegni che accompagnano le poesie.

Papavero

L’ultima parola è il papavero, protagonista di Meteo insieme alle vitalbe e ai topinambùr, in quanto fiore che evoca la nostra medesima condizione di precarietà e marginalità. Se un tempo il papavero si manifestava nella sua rarità, distribuendosi in maniera furtiva tra i campi di frumento, oggi questa pianta risulta “follemente invasiva” a causa dei diserbanti, trovandosi a sbocciare, senza alcuna logica o rispetto delle leggi naturali, ai margini delle strade o lungo i terrapieni delle ferrovie.

Il valore cromatico dei papaveri diventa anche simbolo di una realtà che porta con sé la tragicità della storia. La poesia non può che collassare e infettarsi a sua volta. Come ha affermato Zanzotto in una intervista: “Anche i paesaggi in apparenza più incontaminati ardono di micidiali invisibili radiazioni”.

Currunt di A. Zanzotto (da Meteo, 1996)

Leggendo questi versi ci troviamo immersi in quello che un tempo è stato paesaggio, ma è proprio in questo incontro tra io – anch’esso disgregato – e natura che si può rintracciare una possibilità di identità nel disfacimento terrestre.

Il percorso poetico di Zanzotto, tramite lo spostamento del linguaggio verso il paesaggio, sembra risolversi con un ritorno alla terra, ritorno che emerge dall’attenzione ai campi semantici botanici e naturali e che arriva a compimento nonostante la catastrofe ambientale. Zanzotto ha dimostrato che, con una nuova semantica poetica, è forse ancora lecito immaginare mondi possibili e un riscatto della natura dinnanzi alla minaccia di estinzione provocata dalla catastrofe ambientale. E la resistenza del paesaggio mette in luce una possibilità di “re-esistenza”anche dell’identità soggettiva e del linguaggio.

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