iii.

Il mio crip time

"Ripristinare il mio rapporto col tempo è anche diventato un modo per sopravvivere al dolore."

Il dolore perpetuo ha cambiato il mio rapporto col tempo, e accettarlo mi ha aiutato ad accettare la mia identità come persona disabile.

Una volta anch’io mettevo la sveglia sapendo che quando avrebbe suonato sarei stata in grado di fare quello che avevo intenzione di fare. Poi un giorno mi addormentai e mi svegliai in un corpo che non riconoscevo più. Può succedere a chiunque: ammalarsi e non riprendersi più. Nel mio caso, sono pochi i momenti in cui non provo dolore. Vivo con la nevralgia al trigemino e altri nervi, considerata il dolore peggiore che esista e che purtroppo alcuni hanno soprannominato “malattia suicidio”. Per adesso non esiste una cura definitiva. 

Ogni giorno è come se qualcuno mi stesse bruciando la faccia, tirandomi e sciogliendomi la pelle, mentre api mi pungono, i denti mi vengono tolti, un coltello si spinge sempre di più nel mio orecchio e un altro nella mia guancia. La lingua mi brucia, la mia faccia brucia. Quando è presente il dolore non riesco a parlare, non riesco a sorridere, non riesco nemmeno a pensare a masticare. Se riesci a immaginare la sensazione di essere presa ripetutamente a colpi in faccia da un mattone coperto di acido che ha preso fuoco durante la giornata e quando dormi, assieme a scosse che sembrano coltellate in faccia e nell’orecchio – questa è la mia realtà e la realtà di troppe altre persone, tutti i giorni. A volte, si vede un po’: la mia faccia cambia, l’occhio destro è un po’ più chiuso dell’altro e il labbro si abbassa, ma davanti ad altre persone cerco di non farmi vedere così. Ci ho messo tanto tempo ad accettare che guardando allo specchio non avrei visto la faccia pestata, bruciata e distrutta che mi aspettavo di vedere. È anche per questo che “si vede che stai meglio” e “sei troppo giovane per essere così malata” sono solo alcuni esempi delle frasi che mi sono state dette negli ultimi anni. 

Una volta anch’io mettevo la sveglia sapendo che quando avrebbe suonato sarei stata in grado di fare quello che avevo intenzione di fare.

La tendenza umana – e anche medica – è di cercare (e chiederti) la causa, il perché, ma sapere perché vivo con la malattia del suicidio è un peso che ho lasciato andare man mano che accettavo la mia nuova realtà, è un peso che non voglio più portare perché non mi serve. Questo vale anche quando uso una sedia a rotelle – perché ad ogni modo le nostre informazioni mediche non sono per gli altri, qualunque sia l’intenzione. La sorveglianza e speculazione sulle persone malate e disabili, il concetto di dover “dimostrare” di esserlo è un costante nella storia che esiste tuttora, ed è pericolosa e violenta. 

Così come il dolore ha reso il mio mondo più piccolo, così sono diventate sempre meno le ore nella giornata a me disponibili. Il dolore incessante ti tormenta e ti traumatizza. Il mio cervello prova a proteggermi ma allo stesso tempo manda costanti segnali di dolore. Ho dovuto analizzare, sperimentare e finalmente accettare che non avevo scelta quando si tratta del modo in cui mi preparo e mi riprendo, anche solo per un paio di ore con una persona. È un’equazione costante, e in molti sensi crudele: per ogni occasione in cui utilizzo l’energia limitata che ha il mio corpo devo aggiungere almeno una giornata a riprendermi a letto, al buio, con un dolore incessante.

Ripristinare il mio rapporto col tempo è anche diventato un modo per sopravvivere. Quindi devo bilanciare quanto questi momenti mi possano dare emotivamente e socialmente: quando scelgo di usare la mia energia in questo modo, è perché so che ne varrà la pena. So che ne varrà il dolore, ma mi ritrovo lo stesso a sognare altri modi di rapportarmi col tempo: del resto noi malati viviamo in corpi su cui abbiamo poco se non quasi nessun controllo. Per me, anche solo parlare è un atto doloroso e nessuno, a parte le persone che vivono con la mia malattia, può capire quanto sia doloroso, e quanto io stia dando di me stessa solo prendendo parte a una conversazione, e quanto in seguito pagherò per averlo fatto, quando nessuno mi vede. 

Naturalmente non si tratta solo di un’equazione per avere una vita sociale, è la nostra realtà quando si tratta di mantenere un lavoro e di studiare: è che semplicemente non vedete come stiamo davvero e come viviamo. Per me si tratta del desiderio di recuperare tempo, di anticipare momenti – se solo potessi cambiare quanto tempo impiego per riprendermi. Se potessi accumulare le ore di riposo in modo da poterne poi fare ciò che vorrei fare, la domanda rimane: cosa farei con tutte le ore senza dolore? Niente, perché sono ore che non esistono. Vuol dire avere fusi orari completamente diversi dai miei coetanei. Durante una mattina “buona” riesco a parlare, sorridere, muovermi, masticare. Man mano che continua la giornata, sono meno in grado di fare queste cose. Una volta potevo fare in un giorno quello che adesso non riesco a fare neanche in più di una settimana. Le persone che mi stanno vicino sanno che per trascorrere tempo assieme, anche per una chiamata o una videochiamata, ho solo un po’ di tempo a disposizione alla mattina prima che il dolore inizi.

Non si tratta solo di un’equazione per avere una vita sociale, è la nostra realtà quando si tratta di mantenere un lavoro e di studiare: è che semplicemente non vedete come stiamo davvero e come viviamo.

Un’amica vive anch’essa con un dolore costante, ma il suo fuso orario è diverso dal mio, quindi non riusciamo a parlarci al telefono di frequente. Raramente ci troviamo sullo stesso fuso orario, forse un paio di volte all’anno – ovvero raramente ci capita di avere una giornata in cui tutt’e due riusciamo a parlare nello stesso momento. La comunicazione tra di noi non è regolare ma è sempre presente: ci capiamo nei momenti di silenzio, sappiamo l’energia che occorre per fare cose che per i nostri coetanei sono una seconda natura, ci lasciamo messaggi vocali quando riusciamo. È con lei che parlo di viaggiare nel tempo per recuperare ciò che volevamo fare ma i nostri corpi non ci permettono di fare, per esempio. Ma è una delle tante conversazioni che continuano ai nostri termini: non c’è mai una richiesta di risposta immediata, si continua quando si può.

È tramite i messaggi vocali che ho potuto conoscerla così bene: messaggi pieni di aneddoti, pensieri, recensioni di libri, serie TV e film, registrati e mandati dai nostri letti, nelle posizioni più confortevoli che riusciamo a trovare per riuscire prima o poi ad addormentarci, vivendo entrambi in corpi che si attaccano incessantemente, che ci torturano fino a quando riusciamo a dormire. 

Tra di noi ci capiamo: online ho trovato persone che, come me, vivono in corpi che non operano nello stesso spazio temporale dei nostri coetanei non malati e non disabili. In molti capiamo anche il dolore che esiste nel percorso dell’accettare che il proprio corpo non è più capace di fare ciò che poteva prima. È stato il saggio “Six Ways of Looking at Crip Time” di Ellen Samuels a rivelarmi l’esistenza di una nozione che descrive in che modo il tempo è diverso per noi e i viaggi nel tempo che volevo fare. È il cosiddetto “crip time”, un concetto temporale spiegato da Alison Kafer in cui “piuttosto che piegare corpi e menti disabili per conformarsi al tempo, il crip time piega il tempo per venire incontro ai corpi e le menti disabili.” Samuels lo descrive come una “flessibilità non lineare.” Per molti di noi, il crip time fa parte del nostro vocabolario. 

Tento di rendere più traducibile questo concetto perché il crip time non è solo una realtà, è una forma di accessibilità. Se usi uno spazzolino elettrico, stai già usando un’invenzione nata con l’intento di essere accessibile. Forse anche tu usi i sottotitoli per non perderti nulla nei dialoghi. Forse usi gli ascensori quando puoi. Se hai bisogno degli occhiali, conosci bene la sensazione che provi quando ti rendi conto di non sapere dove sono.

L’accessibilità è un beneficio per tutti coloro che fanno parte di una società: e anzitutto i disabili ne fanno più parte, perché siamo meno nascosti, e anche perché prima o poi altre persone nella società diventano disabili. Se non sei disabile adesso e hai il privilegio di invecchiare, forse anche tu diventerai disabile. Anche tu avrai bisogno di aiuto. A proposito di COVID e supremazia abile, Mia Mingus spiega: “La cultura abile vi istruisce a comportarvi come se voi foste indipendenti, ad accettare il mito dell’indipendenza. Rifiutatelo. Abbracciate l’interdipendenza e sappiate che è l’unico modo con cui riusciremo a mettere fine a questa pandemia. Sappiate che mettendo al centro le persone disabili, prima di tutto le persone ad alto rischio, questo aiuterà tutt*.”

“Piuttosto che piegare corpi e menti disabili per conformarsi al tempo, il crip time piega il tempo per venire incontro ai corpi e le menti disabili.”

Ed è cruciale ricordarsi dell’accessibilita anche perché sempre più persone al mondo vivono con il cosiddetto Long Covid. Queste persone devono essere credute e devono avere accesso all’aiuto che serve loro. Le persone che hanno malattie croniche e/o sono disabili hanno cercato di avvertire gli altri di questo rischio dall’inizio della pandemia. Molti di noi sanno fin troppo bene come funzionano le malattie post virali e come ti cambiano la vita – se solo venissimo ascoltati. Inoltre, ci sono più di 5 milioni di bambini oggi orfani a causa del COVID e costretti a navigare una nuova realtà portandosi dietro traumi forse evitabili. Non sappiamo gli effetti che la perdita di familiari per colpa del COVID potrà avere sui loro corpi e le loro menti. I morti e i numeri dei ricoverati negli ospedali non sono le uniche unità di misura. Come spiega Imani Barbarin: “Covid-19 non è solo un evento di morti di massa, è un evento di disabilità di massa.”

Affrontare l’intraducibile può essere in sé un atto di accessibilità: che senso ha usare parole che solo alcuni usano, che senso ha parlare o scrivere in un certo modo se poi non tutti ti capiscono? Incorporare concetti come il crip time e consultare persone disabili quando organizziamo le realtà del lavoro, le scuole, le università i concerti, le proteste e gli eventi li rende più accessibili. Questo non solo porta a più esperienze, opportunità, possibilità che non c’erano, ma crea anche una realtà che aiuterà tutti.

I nostri corpi non sono macchine e la malattia non è una punizione, come diventare disabili non significa la fine della vita. L’accessibilità è importante perché qualsiasi persona può diventare disabile, certo, ma prima ancora di questo, l’accessibilità è vitale perché nessuno ha il diritto di costringere altri a rinunciare a far parte della società, in qualunque suo aspetto.

10′
5′
Come vuoi proseguire?