Geopolitica dei sentimenti
Come individuare gli aspetti geopolitici e le "priorità strategiche" della nostra personalità potrebbe cambiare il modo in cui costruiamo le relazioni.
Ognuno dei 12 passi del Programma degli Alcolisti Anonimi si accompagna a una “tradizione”: linee guida concettuali che dovrebbero governare il percorso di ogni membro nell’economia della comunità a cui si è rivolto. Il primo passo, ad esempio – “Abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte all’alcol, e che le nostre vite erano diventate ingestibili” – si accompagna al riconoscimento dell’adesione al gruppo: “Il nostro benessere comune dovrebbe essere la priorità; il recupero personale dipende dall’unità AA”. Passo e tradizione che ritualmente si esplicano nell’atto generalmente più televisto e riconoscibile del Programma, quello in cui un membro del gruppo si alza in piedi per parlare di fronte a tutti e, dopo aver detto il suo nome, ammette di essere un alcolista. Gesto che al tempo stesso rafforza sia il singolo che il gruppo: non è solo ammissione e consapevolezza, ma anche ponte di comunicazione e apertura verso gli altri membri, perché scoperchia una struttura identitaria condivisa.

Raramente nella vita ci troviamo in situazioni che ci consentono di raggiungere quel senso di abbandono e disponibilità all’ascolto nei confronti di completi sconosciuti – ad alcuni di noi è capitato talvolta nelle strutture di degenza, o in una sala d’aspetto particolarmente rassicurante di un terapeuta – ma chi lo ha provato lo descrive spesso come estremamente liberatorio. Una specie di trance comunicativa in cui saltano tutti i filtri, e si è in grado di verbalizzare e ascoltare questioni, sentimenti e problemi che non saremmo in grado di ammettere o accettare neanche di fronte alle persone di cui ci fidiamo di più.
Ovviamente, come dicevo, questo processo è “facilitato” – inteso con tutto il pudore possibile – da un fattore strutturale la cui ammissione genera automaticamente una connessione. Quando dichiari di essere un alcolista in un gruppo AA, sai già di essere circondato da persone che condividono e possono accettare il tuo problema: la decompressione sociale è già in parte avvenuta varcando la soglia della stanza in cui si tiene la riunione. E poi c’è un secondo e cruciale aspetto: l’alcolismo è un fattore difficile da ammettere, ma relativamente più semplice da individuare e delineare. Quanti aspetti di voi stessi e della vostra vita (anche positivi) sareste in grado di riconoscere chiaramente, per poi essere comunicati con così tanta sicurezza e convinzione di fronte agli altri? Io non saprei cosa dire di me stesso, se non banalità, idee e speranze.
Eppure questi fattori ci sono per tutti, si sono sommati e depositati come sedimenti negli anni, e sono profondamente convinto che giochino un ruolo fondamentale nelle nostre relazioni e nella difficoltà di trovare e mantenere un piano condiviso di comunicazione con gli altri.
Quanti aspetti di voi stessi e della vostra vita (anche positivi) sareste in grado di riconoscere chiaramente, per poi essere comunicati con così tanta sicurezza e convinzione di fronte agli altri?
Se ci riflettiamo un po’, il bagaglio di identità ed esperienze che ci portiamo dietro, e che rimane perlopiù ignorato in ogni relazione, non può che indirizzare moltissimo i nostri rapporti. Il dramma dell’incomunicabilità per me non sta tanto nell’effettiva difficoltà di trovare un terreno verbale comune, di esternare i sentimenti, i problemi, le paure e le idee contingenti – se fosse così basterebbe iscriversi a qualche corso, sforzarsi di trovare un modo – ma nell’inconoscibilità delle strutture sommerse. I condizionamenti familiari, il reflusso dei diversi posizionamenti sociali, i luoghi da cui proveniamo: facciamo fatica anche solo a percepirli e sintetizzarli nella nostra intimità, quando siamo soli, quindi figuriamoci quanto possano essere ingombranti nell’instaurare una relazione in cui questi elementi devono trovare, nell’ombra, un bilanciamento con quelli di un’altra persona. Come placche oceaniche se ne stanno lì, continuano a muoversi impercettibilmente, creano fenditure di magma negli abissi.
Prendiamo i rapporti amorosi (vale anche per quelli amicali o sociali in realtà, ma con diverse modalità): a me personalmente appaiono come membrane stratificate, in cui i differenti tessuti hanno un meccanismo di osmosi proprio. Quello su cui spesso ci concentriamo, quello più superficiale, è la reciproca autonarrazione: la Peste Antonina del nostro secolo. Ognuno di noi tenta di raccontarsi chi è, di dirigere una storia della propria vita. Lo facciamo tramite i valori in cui crediamo, le impressioni che il mondo esterno ci lascia, il lavoro che scegliamo, il modo in cui ci vestiamo, il linguaggio che parliamo. Ed è proprio questa catena proteica quella che agganciamo agli altri inizialmente, sia per sedurli che per instaurare la testa di ponte di un rapporto. Ci concentriamo sulle affinità, o almeno ci piace pensarlo.
I condizionamenti familiari, il reflusso dei diversi posizionamenti sociali, i luoghi da cui proveniamo: facciamo fatica anche solo a percepirli.
Poi c’è il mondo dei sensi e dei sentimenti, quello a cui di solito ci fermiamo, per stabilire che, al di là delle affinità, c’è anche ciccia. Deleghiamo a questa parte molta responsabilità nel determinare il destino di una relazione, il suo fallimento o il suo successo, e spesso la interpretiamo come un continuo mare in tempesta, imprevedibile e incoercibile. Ma bastano queste due parti a far scaturire e prosperare una relazione? Siamo solo questo, idee e sentimenti? La nostra storia, la nostra mitopoiesi (da cui evidentemente proviene l’autonarrazione), i luoghi in cui abbiamo vissuto, le persone che abbiamo conosciuto, che peso hanno? Perché a me, in realtà, sia le idee che i sentimenti appaiono come sovrastrutture. Sono molto importanti, importantissime, ma non bastano a sorreggere la nostra identità.
Sarebbe utile, forse, poter applicare all’indagine delle relazioni anche i canoni di una disciplina che in questo momento va molto di moda in Italia: la geopolitica. Che, sintetizzando parecchio, si occupa di studiare le relazioni tra comunità che occupano un determinato spazio geografico. A differenza della politologia, la geopolitica non si concentra sulle sovrastrutture – i regimi istituzionali, gli orientamenti politici, le religioni, le ideologie – ma solo sulla struttura di una comunità: l’età mediana della popolazione, le etnie che la compongono, i rapporti di forza con le altre comunità limitrofe o lontane, la potenza militare, la pedagogia nazionale, la sua storia, la sua posizione geografica – e applica a questa ricerca un principio di causalità. Alcuni la considerano una materia molto fredda e cinica, ma è affascinante nel suo mettere in luce aspetti della collettività umana che non prendiamo mai in esame e che incidono moltissimo sul presente.

Quanto sarebbe bello poter individuare gli aspetti geopolitici della nostra personalità? Le nostre priorità strategiche messe a nudo, le nostre coazioni a ripetere, le incongruenze.
Con il suo campo lungo di analisi, ad esempio, la geopolitica mostra quanto le priorità strategiche della Cina siano rimaste le stesse nel corso dei secoli: evitare il dilatarsi della frattura sociale ed economica tra coste ed entroterra. Era così per la dinastia Yuan, alla fine del 1200, ed è così oggi per il PCC di Xi Jinping: le ideologie e le diverse organizzazioni burocratiche non hanno alcun influsso sull’esistenza di questa priorità. Oppure ci spinge a chiederci se gli Stati Uniti abbiano raggiunto lo status di più compiuto e dominante impero della storia per la pervasività della loro presenza e cultura nel globo, oppure perché alla fine dell’Ottocento si sono resi isola, protetti da due bastioni oceanici, e quindi risultano un egemone tanto accettabile proprio perché lontani e non invadenti (il che spiegherebbe anche la storicamente mancata cooperazione tra Russia e Cina, che hanno ideologicamente condiviso molto nel corso del tempo, ma occupando una spazio contiguo sentono l’una il fiato dell’altra sul collo).
Quanto sarebbe bello poter individuare aspetti del genere della nostra personalità? Le nostre priorità strategiche finalmente messe a nudo, le nostre coazioni a ripetere, le incongruenze, la sorgente da cui gemmano tutti i desideri più meschini e da reprimere. Forse individuandoli potremmo capire perché scegliamo certe relazioni, perché le mandiamo avanti o le tronchiamo, perché così spesso i nostri desideri ci appaiono tarpati o esaltati dalla presenza degli altri nelle nostre vite.
Questo tipo di analisi, in realtà, nelle relazioni e nel nostro intimo, tentiamo di condurla con la psicologia e l’indagine sull’inconscio, pagando anche un sacco di quattrini. Chi ha fatto terapia per lungo tempo, magari con diversi approcci, sa però che spesso è come una caccia allo Yeti nei boschi. Sia perché gli analisti, purtroppo, devono svolgere il loro lavoro contando non solo sulle conoscenze, ma sulla loro autorevolezza nello spingerci a individuare i gangli salienti della nostra storia, sia perché la memoria che esercitiamo per riportare a galla questi gangli è una testimonianza allo stato gassoso. E l’indagine faticosa che portiamo avanti riguarda soltanto noi: mentre nelle relazioni le storie si mescolano, le strutture si intersecano, e le reazioni chimiche e fisiche che comportano ci arrivano addosso senza preavviso.
Speriamo nella buona sorte dell’immanente, come in un rito aruspico, e nella nostra capacità empatica, nella possibilità di provare pietà e comprensione per gli altri, a ogni nuovo rapporto umano. Speriamo negli incastri strutturali. Ma è una delle cose più difficili della vita: spesso non abbiamo né le capacità, né la forza, per andare oltre i primi strati di osmosi. Con canta Ivano Fossati in La Pianta del Tè, “per orizzonte stelle basse, oppure niente”.