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Eterna Newstalgia

Così le vibe di internet rendono il nostro pensiero sempre più simile a un algoritmo.

Verso la fine del 2021, un articolo pubblicato su Refinery29 ha proclamato il nostro ingresso nell’era della newstalgia: un’epoca in cui la rievocazione del passato incontra le contaminazioni del presente per dare vita a rappresentazioni che devono il loro bizzarro fascino alla combinazione di elementi provenienti da dimensioni temporali differenti.

La serie tv americana Euphoria è un ottimo esempio di newstalgia: mentre le atmosfere dello show sono permeate di chiari riferimenti alla cultura estetica degli anni Novanta e Duemila (non a caso tutta la seconda stagione è stata girata in pellicola fotografica Kodak Ektachrome), il periodo storico in cui è ambientata la serie è quello contemporaneo, con tutto il suo corredo di selfie con lo smartphone, pagamenti in criptovalute e una bellissima scena che ironizza sulla cultura del self-love motivazionale di matrice social.

Quando guardiamo Euphoria, non ci troviamo di fronte né a un fedele revival né a una lucida fotografia dell’attualità, ma a un racconto sospeso in un tempo indeterminato, in cui la chiave estetica rappresenta il principale veicolo di narrazione e il fattore che influenza la nostra risposta emotiva, facendoci scivolare nella famigerata newstalgia.

Sulle piattaforme social, quando si parla di estetica si usa più precisamente il termine inglese aesthetic per indicare la pratica di identificare attraverso immagini e parole chiave lo stile di una determinata sottocultura o di un periodo storico di riferimento.

A ogni aesthetic di solito corrispondono una o più community, i cui membri si riconoscono in un linguaggio stilistico condiviso e nella passione per gli stessi media culturali, dai fumetti ai videogiochi, dalle app alle serie tv. Gli utenti documentano la propria aesthetic realizzando moodboard, video, illustrazioni e grafiche che sintetizzano per immagini l’universo in cui si riconoscono. Queste creazioni vengono poi condivise su piattaforme come Tumblr (madre delle sottoculture online e delle aesthetic da ormai 15 anni), TikTok, Instagram, Pinterest e, infine, YouTube. 

Aesthetics Wiki è il portale dove le aesthetic vengono discusse, aggiornate e prodotte da zero. Come ha spiegato a SCREENSHOT media una delle moderatrici della piattaforma, su Aesthetics Wiki si possono trovare estetiche “create” oppure “non-create”. Le prime sono quelle originate dagli utenti sul portale e non sono necessariamente riconosciute da una community all’esterno, come il Pastel Academia, lo Sparklecore e il Light Boredom, mentre le seconde sono quelle che si sono evolute spontaneamente negli anni, grazie ai contributi di diverse community influenzate dagli stessi interessi e dallo stesso stile, come i chiacchieratissimi Cottagecore, Twee e Indie Sleaze.

Come succede con Euphoria, anche per le community online il fattore estetico diventa veicolo di espressione di un mondo culturale e stilistico difficile da raccontare senza ricorrere a una raffinata combinazione di riferimenti visivi. Le moodboard, infatti, non mettono insieme solo immagini di vestiti, libri e poster cinematografici, ma anche inquadrature di ambientazioni e momenti specifici della giornata per raccontare atmosfere difficili da descrivere a parole, come quella che circonda la lettura di un libro vintage, dalle pagine ingiallite e odorose, immersi in un variopinto paesaggio bucolico in un mite pomeriggio primaverile (cottagecore) o l’atmosfera di una cameretta finemente arredata con tappeti e oggetti di modernariato mentre un vinile dei Belle and Sebastian risuona in sottofondo (twee).

Quando si tratta di denotare le qualità che contraddistinguono queste atmosfere, un’altra parolina utilizzatissima dalle community online è “vibes”.

In un articolo sul New Yorker, Kyle Chayka offre una definizione il più possibile completa di quello che potremmo intendere per vibe: “It’s a placeholder for an abstract quality that you can’t pin down—an ambience (‘a laid-back vibe’). It’s the reason that you like or dislike something or someone (good vibes vs. bad). It’s an intuition with no obvious explanation (‘just a vibe I get’). Many vibes don’t have specific names, but some do.”

Le vibe possono descrivere il mood delle aesthetic, ma il loro utilizzo è molto più ampio e si espande a tutto quel mondo di atmosfere, stati d’animo ed esperienze impossibili da descrivere utilizzando le sole parole. 

Ad esempio, le vibe possono essere associate a sentimenti difficili da esprimere, come quel misto di desiderio e rimpianto che caratterizza la saudade, il senso di calda accoglienza dello hygge o una condizione di simpatetica armonia generale con l’ambiente circostante, che trasforma automaticamente le vibrazioni in un verbo, vibing.

Non solo: espressioni come “morning vibes”e “beach vibes” sono usate per comunicare non un sentimento specifico, ma l’insieme di sensazioni e immagini di cui si fa esperienza in una particolare ora della giornata o in un determinato contesto naturale. Come spiega Chayka alcune vibrazioni sono più facili da riconoscere di altre, ma che si tratti di incapsulare stati d’animo sfuggenti o condividere l’umore di un’atmosfera, le vibe sono oggi un elemento fondamentale del linguaggio online, ancor più delle aesthetic, perché ci aiutano a raccontare il sottile insieme di connessioni che ispira la nostra esperienza e influenza la nostra identità.

Quando qualcuno “controlla” il mood di una persona o di una situazione per verificare se presenta “buone vibrazioni” in sincronia con l’atmosfera circostante sta facendo un “vibe check”.

Invece, si produce un “vibe shift” quando l’ondata estetica che domina il panorama culturale di un determinato periodo inizia a dissolversi all’arrivo di un nuovo paradigma stilistico. Il passaggio dai vestitini vintage a fiori tipici dell’universo twee alle calze strappate e il trucco rovinato indie sleaze? Frutto di un vibe shift. E il violento ripudio di leggings psichedelici e cardigan fluorescenti della new rave a favore dei più sobri mom jeans e white t-shirts per abbracciare il nuovo culto del normcore? Sempre un vibe shift.

Normcore e vibe shift hanno in comune il fatto di essere stati coniati dallo stesso pensatore, il consulente ed esperto di trend-forecasting Sean Monahan, che – tra le tante cose – ha recentemente ipotizzato l’imminente ritorno della decadenza indie sleaze come estetica dominante. Se esistesse un girone dantesco dedicato alla newstalgia, Monahan ne sarebbe l’indiscusso custode.

Come osserva nella sua newsletter l’accademica americana Robin James, però, il vibe shift di Monahan ha a che fare principalmente con una questione stilistica (aesthetic), mentre l’uso contemporaneo del termine vibes sulle piattaforme social è decisamente più ampio, poiché non si limita a descrivere le caratteristiche estetiche, ma il loro allineamento rispetto a una determinata atmosfera.

Le vibe identificano, infatti, lo schema di fondo che permette a una serie tv, a una situazione o a un prodotto multimediale di essere riconosciuto per le sue “90s vibes”, “sad vibes” o addirittura “Liminal Space vibes” a prescindere dalla specificità del suo contenuto. Come spiega sempre Robin James: “To give off liminal space vibes, it doesn’t matter what kind of objects you have collected; what matters is whether or not those objects are aligned in a way that evokes emptiness and weirdness.” 

La capacità di identificare pattern emergenti nelle relazioni tra diversi elementi è una delle caratteristiche alla base del funzionamento di un’intelligenza artificiale. Nello specifico, l’apprendimento automatico tramite deep learning si basa esattamente sull’identificazione di modelli ricorrenti all’interno di grandi set di dati, per produrre classificazioni e previsioni sempre più efficaci. 

Il sistema di raccomandazioni automatiche di Spotify è un ottimo esempio per capire il rapporto tra algoritmi e vibe. I mix basati su diversi mood (malinconico, chill, romantico etc), per esempio, vengono realizzati partendo dalla combinazione di diverse funzionalità dell’algoritmo, tra cui la Raw Audio Analyzation, ovvero l’identificazione di modelli audio classificabili secondo quattro mood differenti: heavy, instrumental, upbeat o chill.

Altri fattori considerati per costruire le playlist sono la vivacità, la ballabilità, l’energia e la positività di una canzone, mentre il livello di rumore viene misurato a seconda del genere. Il risultato è che i mix non vengono creati in base al reale contenuto delle canzoni, ma alla loro capacità di mostrare un orientamento comune in accordo con gli standard fissati per facilitare la lettura dell’algoritmo.

Esattamente come le vibe, gli algoritmi creano associazioni intuitive difficili da tradurre in passaggi logici trasparenti. L’opacità di queste connessioni è alla base del loro appeal ed evoca un senso di magia che scoraggia ulteriori approfondimenti. Si tratta di un fenomeno che due ricercatori americani, Alexander Campolo e Kate Crawford, hanno spiegato molto bene coniando il concetto di determinismo incantato per descrivere come l’opacità dei processi di machine learning produca un mito sulle proprietà misteriose e sovraumane dell’intelligenza artificiale.

In poche parole, non essendo in grado di spiegare perché una macchina – processando set di dati sempre più ampi – produca quell’output e non un altro, ci affidiamo all’idea (fortemente alimentata dall’industria tech) che le sue capacità siano al di fuori dalla nostra portata e le sue deliberazioni talmente accurate da risultare incontestabili. Non so perché Spotify abbia deciso di inserire un pezzo di Olivia Rodrigo nel mix malinconico e uno di Elliott Smith in quello allegro, seguendo la logica del determinismo incantato sarò portata a credere che la mia intelligenza non è in grado di cogliere le profonde connessioni che la macchina, invece, intuisce e rivela. 

L’incanto che proviamo nei confronti dell’intelligenza artificiale non è però (solamente) frutto di una retorica affinata negli anni dalle aziende fornitrici di questi algoritmi, ma è in primis una parte fondamentale del nostro rapporto con le macchine. Come racconta l’accademico Simone Natale nel suo saggio Deceitful Media: Artificial Intelligence and Social Life after the Turing Test, la storia dello sviluppo dell’IA è prima di tutto una storia all’insegna della “banal deception”, ovvero di una forma di inganno dalle vesti talmente sobrie e ordinarie da permettere alla tecnologia di scivolare agevolmente nella nostra quotidianità senza fare troppo rumore. Il fatto che al posto di un temibile Rutger Hauer ci siamo ritrovati ad avere a che fare con le accomodanti personalità, racchiuse in levigate custodie di design, di Siri e Alexa può darci un’idea di come la banal deception sia già riuscita a creare un rapporto rassicurante con i sistemi di intelligenza artificiale.

È interessante notare, però, che la buona riuscita di questa forma di inganno è dovuta in larga parte al fatto che siamo noi stessi ad alimentarla: mostrando diversi esperimenti sulle modalità di interazione tra intelligenza artificiale ed esseri umani, Natale mette in luce un’inconscia volontà umana di adattarsi al funzionamento della macchina, aggiustando il proprio linguaggio per permettere all’IA di comprenderlo e performare al meglio. Usando le parole di Jaron Lanier: “We have repeatedly demonstrated our species’ bottomless ability to lower out our standards to make information technology look good.”

Il motivo di tale complicità non risiede però in un’ingenuità di fondo, ma nell’intimo desiderio di vedere l’intelligenza artificiale soddisfare le nostre più alte aspettative, in un processo di costante “pastorizzazione” che tende a conservare solo gli elementi compatibili con la narrazione dominante, quelli del determinismo incantato, delle playlist di Spotify, del vibe shifting.

Come racconta Natale condividendo le osservazioni di Joseph Weizenbaum, creatore di uno dei primi chatterbot: “Humans, having initially built the machines, might come to embrace the very models of reality they programmed into them, thereby eroding what we understand as human.”

Da questo punto di vista, utilizzare le vibe per descrivere l’esperienza sensibile è un modo per avvicinarci ai modelli di realtà programmati nell’intelligenza artificiale, applicando un ulteriore abbassamento dello standard. Le vibe trasformano le qualità del mondo materiale in informazioni alla portata degli algoritmi, che le rielaborano per restituirci il favore sotto forma di contenuti correlati.

I sistemi di machine learning, però, quando computano, classificano e predicono, non riflettono semplicemente il mondo, ma lo plasmano favorendo quel processo di “pastorizzazione” che permette l’affermazione di una visione dominante sulle altre. Come per l’universo delle vibe, dove mood e correnti estetiche sembrano interpretare il mondo partendo dal collage di immagini e atmosfere impostate, così l’intelligenza artificiale processa unicamente fatti precostituiti, che restano uguali a sé stessi.

Lo spiega bene Byung-Chul Han nel suo Le non-cose: “L’intelligenza artificiale impara dal passato, ma il futuro che essa calcola non è un futuro vero e proprio. All’intelligenza artificiale manca proprio la negatività della rottura capace di far decollare il Nuovo enfaticamente inteso.”

Il problema di tradurre il mondo in vibrazioni, allora, si avvicina molto al rischio che pone Han quando parla della derealizzazione operata dai sistemi digitali: allinearsi al pensiero macchinico per abituarsi a vivere una realtà, sempre più accessibile e consumabile, oggettivata in forma d’immagine, in cui la percezione viene privata di qualsiasi intensità e il tempo si appiattisce in un’unica dimensione, quella dell’eterna newstalgia.

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