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La fine dell'età dell'oro

Il mondo nel quale siamo stati cresciuti non c'è più, e non conosciamo alternative.

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Due sono le mie personali bussole per orientarmi nel mondo di oggi. La prima è una frase di Marx tratta da L’Ideologia tedesca: “Non è possibile attuare una liberazione reale se non nel mondo reale e con mezzi reali”. La seconda è un meme salvato nel mio camera roll: una vecchia foto di una bambina su un prato, sullo sfondo lo skyline di New York con le Torri Gemelle ancora in piedi, e la scritta: “The world you were raised to survive in no longer exists”. Due cose completamente diverse, del tutto slegate tra loro, che però catturano la verità che sta al fondo del mondo di oggi e che ci parlano in realtà della stessa cosa.

Il mondo nel quale siamo stati cresciuti non esiste effettivamente più. Parlo a nome della generazione rappresentata dalla bambina nella foto: quell’orizzonte di fiducia nel futuro, che educava la classe media occidentale a dare per scontata la certezza di poter scegliere la direzione della propria vita e realizzare le proprie aspirazioni, non esiste più. La fonte zampillante di benessere materiale che produceva quella fiducia si è seccata, e le riserve accumulate stanno rapidamente calando sotto il livello di guardia oltre cui occorre razionare e centellinare ogni goccia. Anche quel senso di centralità che percepivamo fino a 20 anni fa – l’idea che l’Occidente fosse una sorta di prototipo del mondo a venire – si è dissolto. Oggi nessuno percepisce più il pericolo di un’americanizzazione del mondo a colpi di McDonald’s e Coca-Cola: non esiste più, come non esistono più le Torri Gemelle. Motivo per cui quell’immagine risuona come un simbolo agli occhi di chi oggi ha 30 anni o giù di lì.

Il meme ci parla della fine di un’età dell’oro: “Et in Arcadia ego”. La sua potenza è dovuta al fatto che la mia generazione è nata proprio quando quell’età dell’oro cominciava, si è illusa che sarebbe durata, è diventata adulta con terrore mentre ne vedeva la fine. E ora si trova a non conoscere nulla di diverso: il mondo nel quale siamo stati cresciuti non solo non esiste più, ma è anche l’unico mondo che ritenevamo possibile. Ci sentiamo come Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso terrestre, ma siamo più simili a Siddhartha Gautama che, uscendo per la prima volta dal palazzo principesco in cui ha vissuto per tutta la sua giovinezza, scopre l’esistenza della sofferenza. Cresciuti non per colpa nostra nella bambagia di un bias sciovinista occidentale che ha limitato il nostro mondo mentale alle due sponde dell’Atlantico, non abbiamo mai visto altro che le stanze del palazzo principesco della nostra età dell’oro. Ora i muri di quelle stesse stanze ci crollano intorno, via via che si scioglie l’incantesimo neoliberale che ha temporaneamente permesso di rilanciare il ciclo di accumulazione a guida statunitense dell’ultimo secolo, e di alimentare i rubinetti del nostro benessere materiale. 

Come a Siddhartha è stata nascosta la sofferenza, a noi sono state nascoste le brutalità che stavano alla base del nostro benessere. Celebrando il crollo del muro di Berlino nell’89 o la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel ’91, festeggiavamo il ritorno delle libertà civili nell’Europa orientale sotto regime totalitario, senza notare il crollo verticale dell’aspettativa di vita in Russia collegato alla rapina del welfare sovietico: una serie di politiche collegate alla transizione del ’92 – la privatizzazione delle aziende di stato, la svendita delle risorse, la truffa dei voucher, la fine dei controlli ai prezzi – che hanno vaporizzato il potere d’acquisto e distrutto le condizioni di vita della maggior parte della popolazione mentre creavano una minoranza di oligarchi. Anni dopo, la sinistra no-global concentrava le sue paranoie su come lo stile di vita americano avrebbe omologato e schiacciato le culture, guardando la pagliuzza dei fast food e del libero mercato della forza lavoro più che la trave di un mondo unipolare tenuto sotto occupazione armata e con frequenti guerre coloniali. 

Come a Siddhartha è stata nascosta la sofferenza, a noi sono state nascoste le brutalità che stavano alla base del nostro benessere

A furia di nascondere sotto il tappeto tutta quella polvere – e con essa quei pochi sconfitti ed esclusi dalle nostre società opulente – l’incantesimo ha funzionato, permettendoci di vivere in Arcadia ancora per qualche decennio. E così, vaste zone che fino ad allora erano state in gran parte escluse dall’economia-mondo capitalista vennero integrate al nostro Eden in posizione subordinata. I desideri del capitale occidentale si stavano realizzando, ma come ogni desiderio che si realizza erano accompagnati da un monito: “Attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo”. A ogni piano per la terapia d’urto russa, a ogni privatizzazione delle aziende di Stato sovietiche, a ogni delocalizzazione delle filiere produttive per comprimere il capitale variabile si gonfiava una contraddizione sempre più ineludibile che avrebbe finito per rompere quello stesso incantesimo. 

La frase di Marx che ho citato all’inizio racconta la seconda parte del quadro: a collegarla alla bambina sul prato con le Torri Gemelle sullo sfondo – la nostra Arcadia, perduta come la nostra infanzia – è la stessa logica di causa ed effetto che collega il grande cambiamento avvenuto nel corso degli ultimi 40 anni e il motivo per cui il mondo oggi ci sembra improvvisamente diventato inconoscibile, preso com’è in quello che l’economista Giovanni Arrighi chiamava “caos sistemico”: la fase di mezzo tra la fine di un’egemonia, di un ciclo di accumulazione di capitale, e l’inizio di un’altra. 

Più che causa ed effetto, è un effetto valanga. La prima palla di neve era rotolata a Shenzhen, un villaggio di pescatori sulla costa meridionale della Cina. Qui nel 1980 Deng Xiaoping volle la prima zona economica speciale (ZES) della sua politica di “riforma e apertura” del Paese, approvata nel 1978 dal terzo Plenum dell’XI Comitato centrale del Partito comunista cinese. Quando ci sono passato io, 39 anni dopo, quello che durante la rivoluzione culturale era un villaggio di pescatori affollato di profughi in fuga verso l’adiacente Hong Kong era diventato una megalopoli da 12 milioni di abitanti e una delle città più futuristiche del mondo.

Su un cartellone commemorativo all’ingresso di un parco in cui alcuni ragazzi andavano in skateboard, la faccia di Deng invitava a seguire risolutamente la linea di base del Partito per 100 anni. Ovvero la continuazione di una politica fatta di agevolazioni alla libera impresa e al capitale straniero e il ritorno dalla finestra del capitalismo cacciato dalla porta nel periodo maoista, che pur aumentando le disuguaglianze ha trasformato un paese arretrato nella seconda economia mondiale. Il laconico Deng descriveva il processo in corso, lo sviluppo e le disuguaglianze economiche in aumento, con semplici metafore. Se vuoi andare da qualche parte sono meglio due treni diversi, uno più veloce e uno più lento, che due treni uguali che stanno fermi. Se apri la finestra entrano le mosche, ma non per questo è meglio tenere sempre tutto chiuso.

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In 40 anni di “riforma e apertura” delle finestre, nel socialismo cinese sono entrate parecchie mosche, e l’attenzione è andata tutta su di loro. Nel frattempo però 800 milioni di persone sono uscite da uno stato di povertà assoluta. “Non è possibile attuare una liberazione reale se non nel mondo reale e con mezzi reali”, non si possono cambiare i rapporti di produzione sociali vigenti con altri migliori se prima non si sono sviluppate le forze produttive al livello necessario a sostenerli. Partendo da questa semplice constatazione – Deng aveva studiato a Mosca all’Università Sun Yat-sen durante la Nuova politica economica (NEP), che considerava “forse il modello corretto di socialismo” – la palla di neve aumentava di dimensioni, diventando un processo di portata storica, di quelli che cambiano l’economia-mondo globale. In pochi decenni, mentre noi bambini camminavamo scalzi sui prati dell’Arcadia con le Torri Gemelle alle nostre spalle, un miliardo e mezzo di esseri umani veniva rapidamente incorporato nell’economia-mondo capitalista da cui era stato escluso fino a quel momento. 

Certo, inizialmente vi venivano incorporati in posizione subalterna, né più né meno che come gli ex cittadini sovietici: manifatture a basso valore aggiunto, cinesate tarocchissime. Ma a differenza di altri nuovi spazi conquistati al capitalismo, questi non avevano alcuna intenzione di rimanere tali, e fin dal primo istante avrebbero cercato di risalire la catena del valore. Il costo dell’incantesimo che materializzava la nostra Arcadia era che li lasciassimo fare. 

Mentre gli spazi dell’ex “secondo mondo” sovietico venivano incorporati nel capitalismo mondiale nel caos della terapia d’urto, l’incorporazione degli spazi ben più vasti dell’economia cinese avveniva in modo controllato: il Partito comunista che si teneva ben strette le leve del potere così da tenere il coltello per il manico. Ma non è per questa ragione che questo processo è una Convergenza. Ben più rilevante è il fatto che la palla di neve che rotola e rotola abbia assunto le dimensioni spropositate di un riallineamento secolare. L’economia cinese rivolge contro l’Occidente la stessa delocalizzazione per cui il capitale occidentale si fregava le mani, già pregustando la compressione dei costi e l’aumento dei profitti. Così facendo, la crescita cinese fa ritornare la Storia del mondo a scorrere sul binario su cui già scorreva prima del miracolo occidentale — prima che, con l’incorporazione subalterna delle Americhe dopo il 1492 e la rivoluzione industriale, l’Occidente compisse quel balzo che l’ha portato a dominare il mondo. Il famoso grafico di Angus Maddison sulle percentuali di PIL globale detenute dalle varie regioni del mondo dall’anno 0 al 2008 mostra in modo eloquente cos’è successo negli ultimi due secoli e cosa sta succedendo da 40 anni a questa parte. 

Allo stesso tempo, la crescita economica cinese viene ridistribuita nella più grande opera di riduzione della povertà nella storia umana, e per una mera questione di numeri quest’opera di ridistribuzione cambia il mondo che conosciamo, sovvertendo la gerarchia economica globale. Scriveva Giovanni Arrighi nella postfazione al suo libro Il lungo XX secolo: “[i miracoli economici dell’Asia orientale, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong] sono stati esempi della mobilità verso l’alto all’interno di una gerarchia fondamentalmente stabile. […] La gerarchia era in grado di strutturare, come in effetti fece, la mobilità verso l’alto di un gruppo di stati est-asiatici (due dei quali erano città-stato), coinvolgendo circa un ventesimo della popolazione mondiale. Ma strutturare la mobilità verso l’alto di uno stato che da solo comprende circa un quinto della popolazione globale è una questione completamente differente. Implica un totale rovesciamento della struttura fortemente piramidale del sistema gerarchico”.

Ovviamente, l’impatto di questa spinta sovversiva ha un segno positivo se viene visto da chi ne trae beneficio (gli articoli di un ipotetico Bifo cinese sarebbero probabilmente pieni di speranza per il futuro) e ne ha uno opposto se viene vista da chi, nel grafico di Maddison, si trova sulle linee che puntano verso il basso — quelle di Stati Uniti ed Europa, e in generale dell’Occidente che vede il suo tramonto dopo due secoli di dominio incontrastato e tre decenni in cui quel dominio sembrava essere stato magicamente rilanciato. 

Nel terrore dell’invasione e della sostituzione, il nuovo complottismo esprime la percezione fondata di un’effettiva perdita di rilevanza

Negli ultimi anni abbiamo avuto modo di vedere coi nostri occhi le conseguenze politiche e sociali di tutto questo: l’ascesa del fenomeno nazionalpopulista, il terrorismo suprematista sempre più diffuso e sempre meno marginalizzato, il diffondersi e lo strutturarsi di un nuovo complottismo che (segno dei tempi) nel terrore dell’invasione e della sostituzione esprime la percezione fondata di un’effettiva perdita di rilevanza. Il primo è stato in fondo una rivolta interna al liberalismo di fronte alla sfida del declino dell’Occidente, il secondo il tentativo di avanguardie (i vari Breivik e Tarrant) che hanno per prime scelto di agire spinte dalla percezione di tale declino e dalla necessità di mettere in guardia, “suonare la sveglia”, la coscienza occidentale. Allo stesso modo il complottismo, un tempo mischione di anti-autoritarismo e paranoie con un’eco antisemita, si sta oggi strutturando tramite l’über-complottone QAnon nella – parafrasando Bebel – reazione alla Grande Convergenza “degli imbecilli”. 

Questi e altri demoni – Gramsci direbbe “mostri” o “fenomeni morbosi” – sembrano uscire dagli angoli più oscuri del nostro passato di civiltà, come se li avessimo evocati nel momento del bisogno. In un certo senso è proprio così: sono stati evocati da quella parte della nostra società che per prima si è accorta del processo in corso e ha deciso che non le piace. Non vanno visti da soli, non vanno studiati in modo verticale ma compresi in modo orizzontale, legandoli l’uno all’altro e a quella parte che sta dall’altro lato e che ancora non riusciamo a vedere — perché ancora manca, e che va formulata se vogliamo vivere nel nuovo mondo che sta emergendo al posto di quello “nel quale siamo stati cresciuti”.

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