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L'oceano in casa

Ci dice qualcosa l’entusiasmo per la natura degli acquirenti dei primi acquari, isterico e irriflesso?

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La prima persona a usare con costanza la parola “acquario” per indicare l’osservazione di animali marini e piante acquatiche in vasche di vetro fu un inglese, Philip Henry Gosse.

Gosse era nato nel 1810 a Poole, nel sud del paese, figlio di un pittore di miniature. In gioventù aveva attraversato l’Atlantico fino ad arrivare nel Newfoundland, in Canada, dove si aveva studiato foche e merluzzi al porto di Carbonear. Appena ventenne aveva acquistato all’asta una copia di Essays on the Microscope, e da allora per due anni aveva documentato ogni insetto che riuscisse a trovare.

In seguito, con alcuni amici, aveva deciso di aprire una comune rurale e un museo di uccelli impagliati in Canada. Dopo il fallimento di entrambe le imprese Gosse tornò in Inghilterra, dove trovò lavoro come insegnante ad Hackney e fu invitato dalla Society for the Promotion of Christian Knowledge per scrivere il saggio An Introduction to Zoology

Le sue ricerche fecero da volano per un altro libro, The Ocean (1844), dedicato a Sir James Clark Ross, che dal 1818 aveva viaggiato per il Pacifico e l’Artico scoprendo innumerevoli specie di flora e fauna marine. Il volume ebbe un successo inatteso, e quell’anno la fama portò Gosse in Giamaica — spesato da un collezionista in cambio di conchiglie da aggiungere alla sua collezione. Ai Caraibi Gosse scrisse altri tre libri, tutti divenuti molto popolari, e si confermò una voce importante nel naturalismo del tempo.

Al ritorno dalla Giamaica divenne un cristiano devoto, e la fede influenzò molti dei suoi successivi lavori. Tramite la moglie entrò in una setta, conosciuta come Plymouth Brethren Movement. La sua vita era scandita dalla monotonia delle preghiere: leggere romanzi e poesie, andare a teatro o cantare era proibito, così come la socialità. 

Gosse era convinto che Cristo sarebbe tornato sulla terra prima della sua morte e, spinto da questo senso di urgenza, cominciò a lavorare a diverse opere sui mari e le coste. La sua vita si divideva tra la scrivania o la riva dell’oceano, dove con l’ausilio di un bastone stuzzicava i fondali bassi o – anche durante l’alta marea – i buchi nelle rocce alla ricerca di creature viventi. Divenne un’autorità in materia, e i suoi frequenti interventi a Londra erano accolti con fervore.

Nel suo libro del 1853 A Naturalist’s Rambles on the Devonshire Coast, alternò il termine “vivarium” a quello di “acquario marino”. Ma la sua opera più nota arrivò un anno dopo: in The Aquarium: An Unveiling of the Wonders of the Deep Sea, Gosse narrava le sue osservazioni costiere e, ispirato dall’apertura del primo acquario pubblico al London Zoo, offriva indicazioni ai suoi lettori su come fabbricarsi un proprio oceano in miniatura, a casa. 

Un acquario, sosteneva il naturalista, era perfetto per scoprire le creature dei mari senza dover discendere nelle profondità dell’abisso indossando complicati equipaggiamenti. Gosse fu molto divertito nello scoprire che lo zoologo francese Henri Milne-Edwards vagava per i fondali del Mediterraneo indossando “abiti impermeabili, lenti adatte, e un tubo per respirare”. L’osservazione è molto più semplice, spiegava, nella tranquillità delle mura domestiche.

Per Gosse, religione e scienze naturali andavano a braccetto: “La natura ci porta al cospetto di Dio,” diceva, “o meglio ce lo svela, rivelandoci alcuni dei suoi attributi essenziali.” L’acquario era il palcoscenico perfetto per ammirare le creazioni mirabili del “Dio orologiaio” di Thomas Paley. In A Naturalist’s Rambles, Gosse descrisse le piscine costiere come un assaggio del tempo benedetto prima della Caduta dell’uomo, e dunque come una profezia di quello che sarebbe venuto nel regno di Cristo. In The Aquarium, poi, paragonò le strutture coralline alla Gerusalemme Celeste.

Come sostiene Jonathan Smith in Charles Darwin and Victorian Visual Culture, è alla luce di questo che dobbiamo considerare le illustrazioni dei libri di Gosse. Le tavole minute e colorate presentavano una sorta di Regno della pace dei mari, le scene brulicanti di specie diverse che convivono libere da lotte o desiderio.

Il pionieristico acquario di Gosse conteneva una quantità impressionante di flora e fauna marine. Cominciò dalle piante che, spiegava, avevano il compito di ossigenare la vasca. Effettuò le operazioni di raccolta il giorno dopo il plenilunio o la luna nuova, quando la marea era al minimo. Armato di un cestino coperto e di contenitori di pietra e vetro, di due o tre provette e di martello e scalpello, Gosse si avventurò tra gli speroni di roccia.

La sua creazione cominciava a somigliare all’immagine che abbiamo noi oggi dell’acquario. Gosse coprì il fondo dell’acquario con uno strato isolante di argilla, ciottoli, sabbia, e piccoli pezzi di roccia che formavano ponti e rifugi per le creature marine. Dopo aver posizionato le piante, versò 76 litri di acqua salata sul panorama in miniatura. Nel corso della prima notte, Gosse osservò la vasca a lume di candela, ammirando il brulicare di piccole conchiglie e microrganismi.

Il giorno successivo fu il turno degli animali. Quindici spinarelli, sette muggini, un ghiozzo nero, tre littorine comuni, una cepola, due cardi, due ascidie, due paguri, quattro gamberi della sabbia, un gambero, due anemoni di mare, e molti altri: in tutto, un centinaio di esemplari. Nonostante la vasca non fosse piena, e ci fosse un semplice sistema di “aerazione artificiale” alimentato dal continuo gocciolio di acqua da un contenitore sospeso sopra la vasca, Gosse si rese conto che il consumo di ossigeno sarebbe presto stato eccessivo. La prima settimana fu un successo, se escludiamo un paio di attacchi da parte dei predatori agli animali più deboli. Ma dopo dieci giorni molti animali morirono, e l’acqua sviluppò un odore sgradevole a causa dei cadaveri sepolti sotto le rocce. Dopo aver pulito la vasca, Gosse riprese l’esperimento.

Poiché il pubblico aveva scarse possibilità di vedere dal vero molte delle creature che aveva collezionato, Gosse decise di farle conoscere attraverso i suoi libri. Si concentrò nella descrizione degli animali che meglio incarnavano i misteri del mondo sottomarino. Per creare immagini chiare nella mente del lettore, li descrisse attraverso analogie con le specie di terra, mescolando attributi umani e animali. Per esempio, chiamò una creatura “topo marino”, dal pelo setoso simile a un cappotto di pelliccia: “La più sontuosamente vestita di tutte le creature che abitano le profondità.”

Il mondo sottomarino è un luogo di definizioni fluide, l’alter-ego della terraferma

Il mondo sottomarino è un luogo di definizioni fluide, l’alter-ego della terraferma. Coralli, stelle marine, anemoni di mare, cavallucci, meduse: sono minerali o animali, vivi o morti, flora o fauna, maschi o femmine? Gosse era particolarmente affascinato dalle creature che stabiliscono una relazione simbiotica al punto tale da non potersi più distinguere come individui. L’alleanza tra buccini, paguri e anemoni di mare era, dal punto di vista di Gosse, semplicemente geniale. 

Molte persone che conoscono il buccino esitano nel vedere la nota conchiglia abitata non dal mollusco, ma da un incrocio tra granchio e aragosta con forti rosse chele e lunghe zampe puntute e nodose. La cosa si fa ancora più misteriosa quando i due terzi della conchiglia si trovano avvolti in una spessa massa violacea e carnosa da cui emerge con testa e lembi il paguro indaffarato. È veramente strana questa alleanza a tre, tra il paguro, il buccino, e l’anemone.

In realtà la relazione è tra due sole creature, perché del buccino resta solo la conchiglia da cui il mollusco è fuggito. Gosse definisce il paguro “lo spazzino dei mari”, colui che come i lupi e le iene divora qualsiasi cosa, viva o morta. L’anemone di mare, noto anche come attinia, con i suoi tentacoli cangianti può espandersi fino a una grande lunghezza per poi rattrappirsi a un decimo della sua dimensione. Pezzi di queste creature possono staccarsi e sviluppare creature a sé. A causa del suo aspetto quasi floreale, l’anemone di mare è stato a lungo erroneamente considerato l’anello mancante tra piante e animali. 

La simbiosi tra il paguro e l’attinia è per Gosse aperta a ogni possibile interpretazione. Chi è in controllo? È il paguro che trasporta l’attinia per il fondale, di roccia in roccia? Oppure è l’attinia che ha divorato la conchiglia e con essa il paguro, che ha poi trovato un modo di uscire dal suo stomaco e dalla sua pelle? L’attinia rilascia una speciale membrana che sì, fornisce un’abitazione al paguro, ma impedendogli forse di andarsene? Con l’aiuto dell’acquario Gosse sperava di scoprire il principio della loro attrazione reciproca e il segreto della loro unione. Ma solo negli anni venti e trenta del novecento i biologi sono stati in grado di offrire spiegazioni plausibili per questa interazione, che oggi è considerata un esempio di simbiosi.

Per Gosse l’acquario era un museo vivente, una curiosa inversione dell’Arca di Noè: teneva al sicuro le specie marine in un mondo asciutto. Il suo entusiasmo, espresso in libri e articoli, pungolava la curiosità della borghesia. Le sue numerose conferenze causavano scompiglio.

Anche le numerose illustrazioni di qualità, molto rare per il tempo, ebbero un ruolo fondamentale nel successo dei suoi libri. Gosse aveva ereditato il talento di suo padre e fu autore di molti disegni delle tavole litografiche dei suoi libri: secondo la studiosa Barbara T. Gates fu tuttavia la moglie Emily, discepola dal famoso paesaggista John Constable, a comporre le meravigliose illustrazioni raccolte in The Aquarium.

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The Aquarium fu più di un caso culturale: fu un successo finanziario — che gli permise di guadagnare una somma ingente, oltre 40.000 sterline al cambio attuale. Così, un anno dopo, Gosse pubblicò Handbook To The Marine Aquarium, una versione ridotta e leggera destinata a coloro che non avevano potuto permettersi di acquistare il primo libro. La borghesia vittoriana, fino a quel momento dedicatasi alla coltura delle felci, cominciò ad appassionarsi alla distruzione delle coste. Per una classe media in rapida crescita, infatti, l’acquario era un ottimo argomento di conversazione. Come scrisse Henry D. Buckler riconsiderando questa follia inglese nel suo libro The Family Aquarium, “l’acquario era sulla bocca di tutti. L’acquario risuonava nelle orecchie di tutti. Mattina pomeriggio e sera non si sentiva parlare di niente che non fosse l’acquario.”

Per sostenere questa crescita della domanda c’era un negozio in Portland Road, a Londra, di proprietà di William Alford Lloyd. Al suo interno, cinquanta grandi vasche e innumerevoli contenitori più piccoli contenevano circa 15.000 specie marine. L’emporio vendeva acqua salata per ogni necessità. Gli acquari erano prodotti in una fabbrica lì vicino, e Lloyd disponeva di una quindicina di impiegati che andavano a caccia di piante e animali o li acquistavano dai collezionisti amatoriali. Prima che esistesse il negozio, gli aspiranti acquaristi dovevano raggiungere le coste, utilizzando mezzi costosi e pericolosi. Da quando Lloyd aveva lanciato il suo business, invece, gli amanti dell’acquario poterono avere tutto quello di cui avevano bisogno.

La smania dell’acquario che attraversò gli anni cinquanta dell’ottocento, comunque, fu solo questo: una smania. Secondo lo storico inglese David Allen, l’ondata di entusiasti della natura di quel decennio fu più sciatta, meno intelligente e più isterica di quelle dei decenni precedenti. Solo pochi anni dopo era tutto finito. Nove acquari su dieci erano stati buttati via o abbandonati al loro destino. L’esperienza individuale diede però vita all’esperienza collettiva dei grandi acquari pubblici di Brighton e di altre località costiere. 

La ricerca vorace di piante e animali causò grande devastazione, e all’inizio del ventesimo secolo il panorama costiero era completamente cambiato

Anche se fugace, però, l’intensità di questa smania ebbe costi ambientali altissimi. La ricerca vorace di piante e animali causò grande devastazione, e all’inizio del ventesimo secolo il panorama costiero era completamente cambiato. James Hamilton Paterson, nel suo libro Seven-Tenths, ne addossa la responabilità alla “combinazione tra zoologia e pulsioni religiose”. Nel 1907 il figlio di Gosse Edmund – in contrasto col darwinismo convinto del padre – scrive nel suo memoir Father and Son:

Quell’anello di bellezza vivente che abita le nostre coste, sottile e fragile, è sopravvissuto per tutti questi secoli solamente grazie alla nostra indifferenza, alla beata ignoranza degli uomini. Questi bacini rocciosi corallini, riempiti di acque trasparenti come l’aria, pieni di bellissime forme di vita, non esistono più. Sono stati profanati, svuotati, volgarizzati, un’armata di collezionisti li ha calpestati. Il paradiso delle fate è stato violato, gli squisiti prodotti di secoli di selezione naturale distrutti sull’altare della curiosità benpensante, idiota. Che mio padre – una persona così conservatrice, così reverente – abbia avuto la responsabilità diretta, attraverso la popolarità dei suoi libri, di una calamità che non aveva previsto gli divenne chiaro dopo pochi anni, e gli costò grande rimpianto.

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