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Saccaromiceti e Big Mac

Da un organismo unicellulare a un hamburger ultraprocessato, il pane e il modo in cui viene prodotto dice molto sull’essere umano.

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I panini non erano affatto come li avrebbe voluti lei, a cominciare appunto dal tipo di pane, che aveva troppa mollica, ma in compenso da una balza proprio sopra di loro si levarono in volo dei deltaplani.

Giacomo Sartori, Tritolo

Johannes e Margarethe vengono portati in mezzo al bosco. Siamo nella Germania del XVI secolo, nel pieno di una grave carestia. I due bambini devono essere abbandonati per ridurre le bocche da sfamare. Hanno lasciato delle briciole di pane per ritrovare la strada di casa, ma se le sono mangiate gli uccelli. L’immagine del sentiero di briciole per orientarsi è un topos della società occidentale. Ancora oggi, nel gergo dell’informatica il breadcrumb (letteralmente, briciole di pane) è il sentiero di link che permette di ritornare alla pagina iniziale. Ma cosa succede se seguiamo le briciole di pane nella storia della specie umana? Il nostro percorso parte dalla Milano di Beppe Sala e arriva nello spazio profondo. In mezzo ci sono le ghigliottine di Parigi e il deserto nero della Giordania. La storia dell’evoluzione umana, infatti, può essere ripercorsa e spiegata misurando la diffusione di un alimento miracoloso e del microscopico fungo che gli dona la vita. 

Nell’estate 2018, mentre il sole dell’agosto milanese crepava i marciapiedi e scioglieva il cemento, apriva al numero 15 di via Lecco il Forno Collettivo di Alessandro Longhin e Davide Martelli. Carol Choi, che il Sole 24 Ore definiva entusiasticamente “panificatrice newyorkese di gran lignaggio, che da ultimo sfornava pagnotte a Copenhagen per Redzepi” si aggiungeva subito al progetto. Come consulente veniva chiamata l’esperta di pane Laura Lazzaroni, autrice di Altri grani, altri pani. Abbiamo sentito Lazzaroni, che ha avviato il laboratorio di panificazione assieme a Choi,  e Longhin, che ha preso parte al Forno solo per alcuni mesi, per capire cosa hanno di diverso i panifici di ricerca rispetto alle panetterie a cui siamo abituati. “Del pane ci piaceva soprattutto il movimento legato alle tipologie di fermentazione”, ci ha raccontato Longhin. “Volevamo portare in Italia il sourdough, un impasto acido fatto con lievito madre. La differenza tra noi e i panifici è che normalmente questi ultimi non sono altro che rivenditori di pani prodotti in laboratori centralizzati”. La prima impressione, quando si inizia a conoscere la realtà dei panifici di ricerca, è che sia un movimento di nicchia, un’attività destinata a un pubblico elitario. Esiste, però, una vera differenza a livello nutrizionale tra il pane che compro da Mimmo, il panettiere egiziano sotto casa, e quello che sfornano realtà come il Forno Collettivo o il panificio di Davide Longoni, uno dei maestri della panificazione contemporanea? 

La storia dell’evoluzione umana può essere ripercorsa e spiegata misurando la diffusione di un alimento miracoloso e del microscopico fungo che gli dona la vita

I fattori che determinano la qualità del pane che mangiamo sono tre. “Farina, lievito e fermentazione. Una cosa che Longoni mi ha sempre detto è che non bisogna demonizzare il lievito di birra o i prefermenti, perché se fai una lunghissima fermentazione riesci a ottenere comunque un prodotto decente dal punto di vista della nutrizione”, spiega Laura Lazzaroni. Le differenze tra il pane di Mimmo e quello del Forno Collettivo sono in ognuno dei determinanti che rendono un pane un buon pane. Il lievito che usa Mimmo è il lievito di birra, che appartiene a un solo ceppo di lieviti, quello del Saccharomyces Cerevisiae, mentre in una pasta madre convivono diversi ceppi di lieviti insieme a migliaia di batteri che, assieme, consentono processi di fermentazione più lunghi ed elaborati. La farina che usa Mimmo è probabilmente farina raffinata di tipo 0 che, come il lievito di birra, è un’innovazione recente diffusasi con l’industrializzazione del settore alimentare. Al contrario, in un panificio di ricerca vengono usate anche farine che derivano dai cosiddetti miscugli evolutivi (sarebbe più corretto parlare di popolazioni evolutive n.d.r.), ovvero colture che mischiano grani antichi con grani moderni per migliorare l’adattabilità e la biodiversità e per ottenere il miglior apporto nutrizionale possibile. Infine, è difficile che il pane di Mimmo lieviti a lungo, mentre la lievitazione di un panificio di ricerca può durare fino a venti ore. Ovviamente tutto questo si riflette nel costo per il consumatore: da Mimmo con due euro compro un chilo di pane, al Forno Collettivo non avrei pagato meno di sette euro.

Quando abbiamo posto la questione del costo, Lazzaroni ci ha risposto: “mi viene in mente una cosa che dice sempre Massimo Mancini. Uno dice: ‘ma perché devo spendere tot euro in più per la pasta quando posso comprarne un pacco al supermercato che mi costa meno?’. Il punto è che se fai il calcolo sulla porzione e non sul chilo, la differenza è minima”. Alla stessa domanda Longhin ha risposto che “per cambiare il mercato bisogna cambiare la domanda: questi movimenti partono sempre da una nicchia, poi diventano tendenza e alla fine si diffondono a macchia d’olio”.

Un anno dopo l’apertura, il Forno Collettivo ha chiuso per troppo casino. “I vicini di casa hanno iniziato a lamentarsi dei rumori provocati dalla linea di lavorazione del pane. […] Prima sono arrivati i vigili e alla fine ci è stato comunicato che avremmo dovuto pagare 200 euro per ogni giorno di attività, […] così abbiamo fermato la produzione”, raccontava Davide Martelli nell’agosto 2019, commentando la fine del panificio.

In un paper PNAS pubblicato a luglio 2018, un mese prima che venisse inaugurato il Forno Collettivo, un gruppo di archeologi europei ha descritto il rinvenimento di resti vegetali carbonizzati che dimostrerebbero la preparazione e il consumo di “bread-like products almeno 4000 anni prima della nascita dell’agricoltura. Il sito in cui sono stati trovati, Shubayqa 1, si trova poco lontano dal confine siriano e si raggiunge avviandosi lungo la International Highway 40 da Amman verso l’Iraq. Allison Bets, l’archeologa della University of Sydney che lo ha scoperto, lo ha riconosciuto come un insediamento natufiano che risale all’epipaleolitico (tra i 15.000 e i 14.000 anni fa).

“Nonostante sia uno degli alimenti di base del mondo moderno, le origini del pane sono quasi completamente ignote”, scrivono gli studiosi, aggiungendo che “l’evidenza archeobotanica del periodo natufiano indica che lo sfruttamento dei cereali non era tipico di questo periodo, e quasi certamente i pasti a base di cereali sono diventati parte dell’alimentazione di base solo quando l’agricoltura si è affermata stabilmente”. La scoperta è comunque rivoluzionaria perché fino ad allora il consenso scientifico si era coagulato attorno all’idea che il pane fosse un’invenzione del neolitico — quindi non precedente al 8000 a.C. Ciò non fa altro che infittire il mistero di quando sia stato inventato il pane e quando l’homo sapiens sia passato dal foraggiamento e la caccia alle tecniche agricole.

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Quello che sappiamo per certo è che “la scoperta del pane fu un progresso rivoluzionario rispetto alla pappa di acqua e cereali: era molto più saporito e molto più nutriente”. A esprimersi così è il giornalista americano Michael Pollan che si è lungamente occupato del mistero del pane. Ne ha parlato in un libro, Cotto, da cui è stata tratta una fortunata serie Netflix. Pollan parla del pane come un vero e proprio miracolo: “un nutrizionista della Davis, di nome Bruce German, mi ha detto una cosa a cui non avevo mai pensato: ‘se ti dessi un sacco di farina e dell’acqua e non avessi altro potresti sopravvivere per un po’ ma alla fine moriresti. Ma se prendessi quello stesso sacco di farina e acqua e li trasformassi in pane potresti vivere all’infinito’”. Pollan aggiunge poi che, una volta scoperto il pane come prodotto del grano, questa poacea ha preso piede fino a diventare la coltura più importante sulla Terra, di cui ricopre 220 milioni di ettari. “In questo senso, il pane è un prodotto della civiltà e ne è anche un fattore di sviluppo”, dice prima di spiegare come l’FDA sia passata da classificare come pane i preparati composti da tre ingredienti (acqua, sale e farina) a composti che contengono fino a 31 ingredienti. Gli ingredienti sono aumentati quando, dopo aver introdotto le farine raffinate e il lievito industriale, sono sorte preoccupazioni sulle qualità nutrizionali del pane e sono stati aggiunti nutrienti come il fosforo e la vitamina D. “D’altronde è così che funziona il capitalismo, no? Crea un problema e piuttosto che risolverlo crea un mercato per risolvere il problema”.

La cliometria è una branca della storia economica che si occupa della quantificazione dei processi storici. Prende il suo nome da Clio, la musa della storia, che a lungo non si è dovuta preoccupare dei problemi del capitalismo e che in certe statue è rappresentata con una pagnotta. Nella cliometria si cerca di trovare un elemento misurabile e seguire la sua quantità nel corso del tempo. Fin dalle origini, la quantificazione della produzione, del consumo e, come misura di sintesi, del prezzo del grano e del pane hanno rappresentato un formidabile strumento cliometrico. Secondo diverse stime, nell’epoca preindustriale il pane costituiva non meno del 30% dell’insieme dei consumi (quello che oggi è il “paniere dei consumi”) della popolazione europea. Se tutti gli eventi e le trasformazioni di quell’epoca hanno avuto un effetto sul pane, misurando le variazioni in quel 30% dei consumi è possibile catturare l’essenza dell’evoluzione umana. Il pane diventa così la causa di tutto, perché ogni aspetto della vita umana si rifletteva in esso e da esso veniva cambiato. Non è del resto impossibile modellare la crescita economica usando due soli output: pane e circhi. Ed è nelle rivoluzioni che gli elementi primari della vita umana – nascere, morire e mangiare – diventano così determinanti che un approccio cliometrico focalizzato sul pane diventa illuminante. 

Una singolare quanto formidabile combinazione di questi elementi si ritrova nel lavoro di Camille-Ernest Labrousse, storico francese che ha ereditato dal ben più noto Marc Bloch la cattedra di storia economica alla Sorbona. Labrousse ha introdotto l’idea secondo cui le cause scatenanti dei principali moti rivoluzionari possano essere ricondotte alle proteste pubbliche per la scarsità o l’eccesso di prezzi nei beni primari. In particolare, in Histoire économique et sociale de la France (1970) ha documentato la variazione mensile del prezzo del grano dal 1726 al 1913. Se già nel 1786 e 1787 aveva cominciato a schizzare alle stelle, un massimo storico si raggiunse nella seconda settimana del luglio 1789, quando il prezzo del pane ai forni crebbe del 75% rispetto al mese precedente. Al culmine di quella settimana, la cittadinanza assaltò la fortezza della Bastiglia. Agli occhi di chi fa il pane dal proprio appartamento potrebbe sembrare immotivata l’attribuzione delle cause della Rivoluzione a quel miscuglio di farina, acqua, sale (e lievito).

La Rivoluzione francese ha avuto origine dall’azione congiunta di una borghesia satolla e di una folla affamata che reclamava soltanto pane

Gli studi di Labrousse e colleghi hanno tuttavia mostrato come in quegli anni la dieta degli abitanti di Parigi fosse composta per il 75% da pane e che questo alimento assorbisse in media il 50% del reddito della popolazione urbana, il 70% della popolazione delle campagne, e fino al 95% dei lavoratori urbani e dei contadini impoveriti. Inoltre, la produzione casalinga era completamente scomparsa, per una serie di credenze religiose e limiti tecnologici. Suona così ragionevole la stima secondo cui nei giorni della presa della Bastiglia circa 200mila persone (un terzo di tutta Parigi) stesse morendo di fame. Una situazione che era normale nella Francia di quel periodo: nei precedenti decenni c’erano già state otto “crisi del pane”, nel 1775 era scoppiata la “Guerra delle farine” e dall’estate 1788 all’estate 1789 erano stati registrati un tumulto per pane ogni due giorni. Ogni aspetto della vita sociale era regolato dal pane, dalla sua produzione e dal suo scambio. Era diffusa e sostenuta da chimici e medici l’idea secondo cui la mancanza di pane portasse alla morte entro pochi giorni. 

La diffusione universale e il peso di questa spesa erano tali che virtualmente tutti gli abitanti della Francia avevano debiti con il proprio panettiere. Questo mondo è stato minuziosamente ricostruito in The Bakers of Paris and the Bread Question (1996) dallo storico economico Steven Kaplan. La condizione scatenante è chiara: “La popolazione […] derivava la maggior parte delle calorie dal pane e da altri grani. Questa popolazione era prima di tutto una massa di consumatori di pane e la loro vita stessa consisteva nel reperire giornalmente pane per sé e la famiglia. […] In un mondo di agonizzante insicurezza il pane rappresentava la misura della loro sopravvivenza”. La sterminata storiografia sul periodo concorda sul fatto che la Rivoluzione ha avuto origine dall’azione congiunta di una borghesia satolla che pretendeva la fine dei privilegi di nobiltà e clero e di una folla affamata che reclamava soltanto pane.

Le condizioni in Europa e nel mondo occidentale in generale ora non sono più quelle della Parigi dell’800, per un fatto squisitamente dietistico. Il consumo pro capite, benché comunque notevole nel XX secolo, è in drastico calo e si è praticamente dimezzato dagli anni ‘60 a oggi, con una netta picchiata dagli anni ‘80. Le ragioni della crisi sembrano essere perlopiù legate alla percezione che il pane ingrassi e che non sia salutare. A questo calo si sono affiancati due fenomeni che oggi ci sembrano centrali nel rapporto tra uomo e pane: la produzione domestica (che già nel 2016 riguardava un terzo della popolazione in Italia) e l’aumento nella varietà, ovvero nel consumo di altri pani, soprattutto altamente nutritivi, a base di lieviti naturali e di farine ottenute da miscugli evolutivi. Negli stessi anni in cui ha avuto inizio la crisi del pane la rivista The Economist sviluppava il Big Mac Index, basato sulla teoria della parità del potere d’acquisto secondo cui nel lungo periodo i tassi di cambio si muovono in modo tale che un paniere di beni abbia un identico prezzo. Il paniere in questo caso è composto solamente dal panino hamburger della catena di fast-food McDonald’s.

Negli anni recenti The Economist ha tentato un rebranding del Big Mac, rendendolo “gourmet” con l’aggiunta di un parametro legato al costo del lavoro. Nonostante in questo indice sopravviva anche solo simbolicamente qualcosa del potere di sintesi dell’evoluzione che tanto aveva stregato i cliometristi, ormai il pane e l’uomo sembrano aver preso strade divergenti. E se il pane è stato il compagno di homo sapiens nel corso di tutte le rivoluzioni la domanda che sorge è se siamo prossimi a una nuova rivoluzione o all’estinzione della nostra specie — anche se i cliometristi non sono dei chiromanti. Comunque vada, all’interno di un più ampio progetto sulla proliferazione della vita umana negli spazi extra-orbitali, la NASA sta per lanciare a 40 milioni di chilometri dalla Terra il nanosatellite BioSentinel. Conterrà soltanto Saccharomyces Cerevisiae. Dovremo seguire le tracce di questi funghi per capire se la vita biologica può sopravvivere alle radiazioni altamente ionizzanti.

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