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Memorie di un conlanger

È molto più divertente creare una lingua artificiale che convincere le persone a usarla.

Sul pontile della nave Salvage, una combriccola di brutti ceffi agghindati in stile steampunk circonda il mio alter-ego Tidus, protagonista biondo e turbolento di Final Fantasy X, decimo capitolo dell’omonima saga videoludica pubblicato da Square nel 2001. Avvicino Tidus a uno di loro, premo il tasto per interagire, e per tutta risposta ricevo un messaggio in una lingua incomprensibile e che di primo acchito appare minacciosa: “Ca cdye ban sunena, icy xiacdu”. 

Provo a interagire anche con i suoi compagni, ricevendo però risposte del tutto simili. Alle loro spalle noto quel che sembra essere un libro, poggiato per terra vicino a una gru. È il Dizionario Albhed n°1, e apprendo così che gli individui di cui sono ostaggio fanno parte di un popolo chiamato Albhed, la cui lingua è possibile imparare raccogliendo i vari dizionari sparsi per Spira, il mondo di gioco. Capisco inoltre che la loro lettera Y equivale alla lettera A italiana e sapendo ciò, raggiungo il rango di Bnehlebeyda te Albhed che significa, come scoprirò centinaia di ore di gioco più tardi, Principiante di Albhed.

Il conlanging (constructed language), ovvero l’arte di inventare linguaggi artificiali come l’Albhed, è una pratica che ha origini molto antiche – la più antica lingua artificiale del mondo a essere documentata è il Balaibalan, la cui creazione è attribuita al derviscio turco Muhyî-i Gülşenî nella seconda metà del XVI secolo – che nella cultura popolare ha trovato una delle sue massime espressioni in J.R.R. Tolkien, le cui innumerevoli lingue inventate costellano l’universo di Arda, il set in cui sono ambientate le sue opere più note.

Con la diffusione dei giochi di ruolo da tavolo fantasy come Dungeons and Dragons (D&D) e delle loro trasposizioni e traduzioni videoludiche, con mondi di gioco via via più complessi ed elaborati, il conlanging si è radicato in una comunità di hobbisti, studiosi e linguisti, tra i quali oggi emerge una figura d’eccezione: l’americano Mark Rosenfelder, uno dei più importanti e prolifici inventori di linguaggi in circolazione. Lo raggiungo via email tramite il suo portale zompist.com, una sorta di Mecca per l’intera comunità conlanger.

Creare un conlang non è cosa facile. Sebbene non sia necessario essere esperti di linguistica, i conlangers meno avvezzi rischiano di concepire lingue fin troppo semplici.

“La passione per il conlanging deriva dal mio interesse per le lingue e il fantasy”, racconta Mark. “Le lingue mi sono sempre piaciute, sin quando da bambino cominciai a viaggiare in Europa con la mia famiglia. A mio padre piaceva raccontare la storia di quando comunicavo con gli italiani in una piazza di Siracusa, a soli sette anni, usando nient’altro che un frasario Berlitz. Collezionavo fumetti italiani e ho provato anche a disegnarne e sceneggiarne alcuni, pur senza padroneggiare minimamente la vostra lingua. Leggevo inoltre tanti fantasy e creare nuove lingue andava di pari passo con l’inventare nuovi paesi e territori. Il mio conworld più importante, Almea, nasce durante i miei anni al college, come set per delle sessioni di D&D”.

Almea è infatti considerato dalla comunità di giocatori di D&D uno degli universi più importanti, se non quello più strutturato e complesso. Mark, seguendo le orme di Tolkien, è riuscito a sviluppare negli anni un intero mondo, con i suoi continenti, specie, città, lingue e mitologie. Il verduriano, conosciuto da coloro che lo parlano come soa Sfahe (La Parola), è una lingua parlata da circa 55 milioni di verduriani nel mondo di Almea, ed è stata concepita da Mark come se fosse un’antenata delle lingue indo-europee.

Creare un conlang non è cosa facile. Sebbene non sia necessario essere esperti di linguistica, i conlangers meno avvezzi rischiano di concepire lingue fin troppo semplici. Mark spiega che “i conlangers attraversano spesso dei passaggi prevedibili. I loro primi linguaggi sono di solito simili ai loro linguaggi natii. I tentativi successivi potrebbero invece essere delle strette imitazioni delle loro lingue straniere preferite. Delle volte creano quello che noi conlangers chiamiamo kitchen sink languages, ovvero dei linguaggi contenenti miscugli di tutte le caratteristiche linguistiche interessanti di cui abbiano sentito parlare, col rischio però di concepire infine dei linguaggi inconsistenti.”

Se oggi l’invenzione di linguaggi artificiali ricopre aspetti legati perlopiù alla dimensione ludica e artistica, lo stesso non valeva per i conlangers del secolo scorso. Specie in Europa, nei primi anni del novecento, un particolare fermento accalorava le menti di intellettuali, matematici e linguisti, che stimolati dalle ultime scorie luminose della belle époque, inneggiavano a nuovi patti sodali tra i popoli al fine di un raggiungimento della tanto decantata pace universale. Era dunque necessario trovare una lingua comune affinché le nazioni potessero affrancarsi dalle diversità culturali e linguistiche, motivo di guerre e crisi implacabili, così da poter dialogare in un nuovo spazio franco sociale, culturale ed emotivo.

Nel 1907, il logico e glottoteta francese Louis Couturat organizzò un convegno a Parigi, con l’obiettivo di scegliere una lingua ausiliaria che avrebbe accolto l’onere di diventare la lingua universale. Tra le lingue ausiliarie dibattute ci furono il volapük, una lingua dal sistema grammaticale piuttosto complesso basato sulla lingua tedesca, inventata dal sacerdote tedesco Johann Martin Schleyer, e l’esperanto, la lingua a posteriori promossa dall’oculista polacco Ludwik Lekzer Zamenhof verso la fine dell’ottocento, che riuscì nel tempo a sviluppare un nutrito seguito di parlanti sino ai giorni nostri (i più recenti report confermano che l’esperanto sia tutt’oggi utilizzato da circa 100.000 persone in tutto il mondo); infine venne dibattuta anche l’ido, lingua più semplice derivata dall’esperanto, che riuscì a spuntarla, ma che in realtà degradò in poco tempo in una lingua parlata soltanto da una nicchia di intellettuali. 

Tentativi futili dunque, un preludio impacciato ai grandi stravolgimenti nazionali che avrebbero provocato lo sconquasso delle due grandi guerre mondiali. “Si percepiva il bisogno di un linguaggio universale”, racconta Mark, “ma bisogna ammettere che sono state create più proposte di quante ce ne fosse bisogno… è molto più divertente creare un conlang che convincere le persone a usarlo.”

Mark ribadisce che “i conlangs sono in circolazione dai tempi di Hildegard of Bingen, che ha creato la Lingua Ignota nel XII secolo. Mi aspetto dunque che il conlang interesserà sempre un certo tipo di persone. Grazie a J.R.R. Tolkien, scrittori e registi sono oggi consapevoli che un certo grado di verosimiglianza e di profondità può essere aggiunto per rendere più consistente un linguaggio artificiale”.

“Dopo il college”, continua Mark, “ho continuato ad approcciarmi alla linguistica, concentrandomi sulla sintassi, la semantica, la fonologia e la sociolinguistica. La linguistica è utile per chi vuole sviluppare conlangs. È come imparare anatomia per un pittore o uno scultore: hai più soluzioni quando conosci come funziona la natura. Quando è nato il Web, ho creato la versione online del Kit di Costruzione di Linguaggi (KCL) e nel 2010 l’ho pubblicato sotto forma di libro. Ha venduto circa 18.000 copie, che non è affatto male per un libro tecnico dedicato a una nicchia così specifica”, confida.

Il KCL è una vera e propria guida che conduce il lettore alla costruzione di un proprio linguaggio artificiale. Si parte dalla fonetica, che Mark consiglia di usare per giocare col proprio linguaggio natio, espandendone i confini sonori inventando nuove consonanti e vocali, sino a badare all’eventualità che i parlanti del nostro nuovo conworld abbiano o meno delle bocche aliene, e dunque differenti possibilità di articolazione vocale e di respirazione. “Di recente sono tornato al mio primo amore, ovvero la sintassi, così ho scritto The Syntax Construction Kit. Ora puoi ben vedere cosa ha combinato quel Noam Chomsky negli ultimi cinquant’anni, e vedere se può aiutarti a sviluppare il tuo conlang!”.

Mark continua: “Ho iniziato a creare linguaggi per Almea — in un primo momento solo per le campagne di D&D, e poi per una serie fantasy. La cosa poi è sfuggita di mano. Il problema con il conworlding è che non c’è mai una fine ed è davvero stimolante continuare a sviluppare il mondo all’infinito, e non c’è nemmeno bisogno che tu debba scrivere un romanzo. Ho scoperto infatti che il materiale pseudo-accademico su Almea è quello che scrivo più volentieri, e alcune persone lo seguono da vicino. Un lettore, un musicista, ha creato addirittura una colonna sonora per Almea. Ho scritto anche un romanzo fantasy (In the Land of Babblers, 2014) ma non ha venduto molto e ho lasciato perdere. Personalmente amo i linguaggi naturalistici, e creo di solito una cultura e una storia che vanno di pari passo con lo sviluppo del linguaggio”.

C’è da chiedersi cosa si perde e cosa rimane nel salto tra una lingua natia e una artificiale. Mark è molto netto su questo punto: “Prendiamo per esempio l’esperanto. È un linguaggio che tutt’oggi viene utilizzato nelle conferenze o per poter viaggiare in ogni parte del mondo. Puoi anche scriverci delle poesie se vuoi. È una lingua così consistente da sembrare un “linguaggio reale”. Questo non è certo l’obiettivo di ogni conlanger, cioè creare il linguaggio più reale possibile, ma ciò ci ricorda che nella costruzione di linguaggi artificiali ci sono davvero pochi limiti”, e continua: “Per molti di noi, un conlang, per quanto complicato possa essere, è qualcosa di simile a una simulazione. Non ha abbastanza parole, o una propria complessità etimologica, diversità dialettali o idiomi; inoltre non ci sono abbastanza testi! E un conlanger può considerarsi fortunato che trovi del materiale scritto da altri autori con il linguaggio che ha creato”.

Personalmente amo i linguaggi naturalistici, e creo di solito una cultura e una storia che vanno di pari passo con lo sviluppo del linguaggio.

E per quanto riguarda l’intraducibilità di una lingua rispetto all’altra Mark non crede che “le lingue siano in genere intraducibili. Ogni cosa può essere spiegata, anche quando la spiegazione necessita di più passaggi, fino quasi a diventare prolissa. Il problema è rendere la traduzione concisa e consistente. Facci caso, ogni dieci anni, dei traduttori producono nuove traduzioni in inglese della Divina Commedia di Dante Alighieri. Nessuna versione potrà restituire l’esatta esperienza che vive un italiano nella lettura dell’opera. Eppure, i traduttori perseverano nel provarci! Fanno del loro meglio, sebbene siano consapevoli che qualcosa andrà pur perso. È possibile – se lo desideri davvero – creare un conlang la cui espressività sia ricca quanto una lingua naturale. Se vale la pena leggerla o studiarla è un altro conto, ma dipende piuttosto dalle proprie capacità narrative e spirituali che dall’abilità del conlanger”.

Non ho mai trovato tutti i Dizionari Albhed sparsi nel mondo di Spira. Ho capito però che la lingua Albhed è molto semplice perché concepita con una sorta di cifrario di Vigenère, ovvero una banale sostituzione di lettere monoalfabetica; insomma, nulla a che vedere con i linguaggi sviluppati da conlangers professionisti come Mark Rosenfelder. Eppure non saprò mai cosa mi avrà detto il pirata Albhed. Finito il gioco, posato il disco nella sua custodia, la lingua Albhed rimarrà per sempre un mistero mai svelato del tutto.

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