iii.

Parole che non servono

Alla biodiversità si accede anche tramite le lingue: perderle è far morire un pezzo di realtà.

Sarà capitato a tutti di sentir dire che il mondo è composto, in quest’ordine, di cose e parole, e che queste ultime servono prima di tutto a nominare le prime. Ma più che una mera funzione strumentale, le parole hanno un potere che riesce a pervadere l’esperienza umana, più di quanto ci aspetteremmo. È logico che cose nuove necessitino di nuove parole, che vengono concepite al bisogno. E quando quelle cose nuove scompariranno, a evocarle, rimarranno le parole. Il processo inverso, però, è meno ovvio ma altrettanto vero: scomparse le parole, scompaiono anche le cose. Qual è quindi la relazione tra l’oblio delle cose e la scomparsa delle parole? Avverto che la prenderò un po’ alla larga.

Il mirtillo nero del Corno alle Scale per ora esiste ancora, nonostante l’aumento delle temperature medie nella zona appenninica tra Emilia e Toscana l’abbia messo a dura prova già da diversi anni. Nella parlata locale esiste un termine per indicare le aree in cui crescono i mirtilli: i baggioledi. La baggiola è la bacca (dal latino bacula), il frutto della pianta del mirtillo. Un agronomo la chiamerebbe “brughiera a mirtilli”, un’area povera di sali e humus nel terreno, acida, che favorisce certi tipi di associazione vegetale: brugo, erica, ginestre dei carbonai e questi mirtilli molto piccoli, di colore sensibilmente più scuro e dalla buccia più lucida di quelli che trovo nei supermercati a Bologna, la città in cui sono cresciuto. Il fatto che siano verdognoli all’interno non mi ha mai convinto a provarli.

Questo genere di brughiera non è così raro nell’Europa continentale: lo si trova in Piemonte, sulle Alpi Cozie, così come più a est, in Valtellina. Ma anche 300 km più in giù, nell’Appennino tosco-emiliano, che rappresenta il limite meridionale di questo habitat e che sarà quindi il primo a vedere la messa in pericolo e la finale estinzione di questa pianta dai piccoli frutti neri, a cui toglievo sempre i minuscoli piccioli, fastidiosi sulla lingua, procurandomi mani nere e un gran macello nella ciotola. Un altro nome locale è pignattino: il mirtillo, se ci fate caso, rassomiglia a un pentolone rotondo in miniatura. 

Al Corno si scia. Nel piano di rilancio delle piste, colpite dalla crisi economica già prima che dalla pandemia, è stato recuperato anche il progetto della creazione di un super-comprensorio sciistico tra questa montagna e la Doganaccia, nel Pistoiese. Dovesse essere realizzato, l’aumento delle temperature lascerà venticinque enormi piloni di metallo, ordinati in sequenza, come un correlativo visivo della spietatezza di un percorso obbligato a tappe monolitiche. Insieme ai milioni di euro, all’equilibrio ecosistemico e alle vedute – che saranno irrimediabilmente modificate – del Passo della Croce Arcana o del meno ieratico Monte Spigolino, finiranno per scomparire anche i mirtilli e le brughiere in cui ieri prosperavano e oggi si limitano a sopravvivere. Non dovranno però per forza scomparire le parole legate a quelle piccole, prelibate, bacche: baggioli, pignattini, piuli (o piuri), lampoline e tutti gli altri sinonimi resteranno con noi, anche grazie ai molti libri e blog che conservano questo genere di vocaboli. Almeno finché qualcuno vorrà e saprà leggerli. Il motto secondo cui ciò che è scritto permane è meno banale di quanto sembri: la maggior parte delle lingue esistenti, semplicemente, non hanno una forma scritta.

Altrove nel mondo, invece, la messa in pericolo di pezzi di ecosistemi ha già un impatto sulle parole e sull’accesso che queste danno alle cose. A rischio ci sono parole e cose centrali nello stile di vita di piccole comunità, molto più di quanto i mirtilli possano mai essere per l’Appennino.

Non viene spontaneo immaginarlo, ma esiste una correlazione positiva tra biodiversità e diversità linguistica: maggiore è la biodiversità, maggiore è la ricchezza di una lingua, e viceversa. Le cause di questa accoppiata non sono ancora del tutto chiare. Forse basta pensare che queste zone si trovano nelle aree tropicali del pianeta, a loro volta famose per ospitare moltissime specie animali e vegetali: questi sono gli ingredienti perché un alto numero di differenti (micro)ecosistemi si formino, tutti garantiti nella loro stabilità interna dal profluvio di piante, insetti, uccelli e alberi che lì si trovano in equilibrio.

L’Amazzonia, la Nuova Guinea, il Centro America, e l’Africa centrale sono aree altamente biodiverse. In questo quadro tropicale di complessità e stabilità si inseriscono le lingue che, proprio come le specie, nascono come altamente adattate ai propri ambienti. Il concetto di nicchia ecologica è infatti applicabile anche al rapporto tra parlata e mondo: essendo Homo Sapiens una specie che ha fatto della strepitosa adattabilità la chiave del suo successo evolutivo, non si vede perché l’adattamento delle lingue all’ambiente dovrebbe aver fatto eccezione. 

Esiste una correlazione positiva tra biodiversità e diversità linguistica: maggiore è la biodiversità, maggiore è la ricchezza di una lingua, e viceversa

A pensarci bene, le lingue sono originariamente servite a farsi largo in un ambiente naturale da addomesticare nei fatti e, allo stesso tempo, appaesare culturalmente. Da questo punto di vista, la maggior parte delle lingue si comporta come le specie animali o vegetali che hanno una nicchia ristretta. Il koala, per esempio, si nutre di eucalipto, un albero dalla diffusione limitata all’Australia: se scomparissero tutti gli eucalipti da quell’area geografica, i koala ne sarebbero spazzati via, per la maggior parte morendo, o in alcuni casi minori sopravvivendo ma dovendo cambiare una parte fondamentale di sé come l’alimentazione. Non è un caso che le forme di appaesamento linguistico – cioè il rendere noto e familiare l’ignoto tramite le parole – hanno uno stretto legame con lo specifico spicchio di mondo a cui si riferiscono. Ma quello che alcuni linguisti denunciano con preoccupazione da almeno un paio di decenni è che non soltanto la scomparsa di ecosistemi implica musealizzare (esporre cose morte strappate dal contesto che le ha generate) la lingua che vi era cresciuta assieme, ma che vale anche l’inverso: cadendo in disuso le parole, si perdono le cose.

Questo problema non si limita ad affliggere gli (ex) parlanti delle lingue in via d’estinzione o cadute nell’oblio. Il dolore (lo spaesamento) di non poter più riconoscere sé stessi e il proprio mondo in una parlata può anche essere visto come un prezzo che non è dispensabile, almeno finché la globalizzazione continua a governare il funzionamento economico dell’umanità. Invece, l’aspetto meno ovvio è che anche la scienza può perdere informazioni preziose col morire delle lingue a nicchia ristretta. Un esempio: nel lessico delle lingue parlate dai pescatori dell’Oceania sono racchiusi millenni di conoscenza sull’etologia dei pesci che la scienza e la tecnologia occidentale tendono a ignorare. Se la nostra lingua scientifica tassonomizza con lo scopo di stilare tabelle e flowchart, le categorizzazioni indigene tendono invece a riflettere esigenze più genuinamente immediate di sussistenza.

In tobi, una lingua parlata a Palau (Micronesia), i nomi dei pesci descrivono il loro comportamento (se mordono, come si nutrono, e così via) ma anche a quale genere di amo abboccano. Conoscere questa varietà linguistica parlata da meno di duecento persone consente di accedere a una quantità di informazioni che coi procedimenti scientifici occidentali standard si otterrebbero con decenni di ritardo – sempre che si sia in grado di sapere come cercare quel genere di informazioni. Oppure, i kayapó del Mato Grosso, che distinguono 56 tipi di api. Un antropologo statunitense ha ricostruito questa divisione in 66 specie secondo una tassonomia genetica della “nostra” scienza. Quest’ultima, pur essendo informativa a livello anatomico e di relazioni intra-specie, impallidisce di fronte alla ricchezza di informazioni ecologiche sulle reciproche differenze di comportamento, di ruolo nell’ecosistema e di interazione con gli umani. I livelli di descrizione della realtà possono anche integrarsi senza scontrarsi, dunque. Il piano della conoscenza tradizionale deve però poter rimanere accessibile e la lingua è la chiave a queste informazioni.

Le lingue, fortunatamente, sanno sintetizzare non soltanto astratte e inverificabili “visioni del mondo” o “metafisiche nascoste” (così dicevano Humboldt e Whorf, padri della relatività linguistica), ma sono anche manuali d’istruzione per specifiche porzioni di mondo. Purtroppo, però, le lingue che sanno rendere così ben leggibili gli ecosistemi sono sempre meno. La buona notizia è che realtà come Terralingua si impegnano per aumentare la consapevolezza sullo stretto nesso – inestricabile, dicono – tra ambiente, lingua e cultura e, soprattutto, dell’importanza delle azioni per preservarlo agendo su tutti e tre i fronti contemporaneamente. Progetti diffusi e no profit come i Living Dictionaries offrono strumenti concreti per mantenere in vita e rafforzare le parlate minoritarie.  

Le lingue sanno sintetizzare non soltanto astratte e inverificabili “visioni del mondo” ma sono anche manuali d’istruzione per specifiche porzioni di mondo

Nella mansarda della casa di Bologna un freezer contiene una vaschetta di mirtilli neri del Corno, che resisterò il più possibile a mangiare. Devo ammettere che mi sento tanto banale col mio stupido mirtillino di lusso (si raccoglie a mano con un rastrelletto e perciò costa caro) da non riuscire a concepire il pericolo di perdere le baggiole e la cultura della loro raccolta e consumo come un vero danno per me o altri. Io che il dialetto neppure lo so, che spesso rimango infastidito a sentirlo in bocca agli altri. Quello che queste parole appenniniche potevano dirmi forse non sono mai stato in grado di capirlo.

Questo è il mio sentirmi inadeguato di fronte al collasso dell’intreccio tra una lingua neppure mia e un ecosistema che rimane disponibile ma schiacciato in un freezer, probabilmente ormai guasto al palato. Parlarsi tra lingue e culture diverse una volta voleva dire tentare di capire cosa avevamo di diverso, finendo anche per parlarsi addosso; oggi è mancare delle parole per spiegarci cos’è che non abbiamo più.

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