iii.

Di pere e di re

Nel 1830, un gruppo di caricaturisti ha trasformato l'immagine di una pera in uno strumento di protesta, dando vita al primo meme della storia.

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In una società senza libertà di parola proliferano simboli e allusioni. Successe anche in Francia nel XIX secolo, quando alcuni caricaturisti produssero una delle più potenti metafore politiche della storia: l’associazione di Re Luigi Filippo con l’immagine di una pera.

A quel tempo in Francia le immagini venivano represse più duramente dei testi, perché circolavano molto di più tra le classi povere, generalmente non alfabetizzate. Così la caricatura, arrivata dall’Inghilterra durante la rivoluzione del tardo Settecento, era il mezzo ideale per aggirare la censura imposta dalla Restaurazione borbonica del 1815.

A quei tempi, di norma, la censura avveniva dopo la pubblicazione: il testo o l’immagine giudicato offensivo veniva sequestrato, mentre l’autore, l’artista e l’editore della pubblicazione finivano sotto processo, per poi essere multati e incarcerati. Ma in periodi di grande incertezza venivano istituite severissime misure di censura preventiva, e nulla, nemmeno un testo o un’immagine, poteva essere pubblicato o anche solo esposto in pubblico senza passare per l’approvazione dei censori governativi. Non erano solo artisti, autori ed editori a finire sotto accusa: ma anche gli stampatori, che rischiavano di perdere la licenza, e quindi il lavoro. Per questo moltissime riviste (tra cui l’Encyclopédie di Diderot) dichiaravano una falsa sede fuori dai confini francesi — di solito in Svizzera, dove le leggi erano più liberali.

Durante la Restaurazione, gli artisti di tutta la Francia inventarono un ricco metalinguaggio di simboli per esprimersi eludendo la censura. In questo dizionario parallelo, la censura stessa veniva rappresentata come un grande paio di forbici sempre pronto all’attacco; i membri del clero erano spegnicandele intenti a estinguere la fiamma dell’Illuminismo; e i politici del regime erano gamberetti, capaci di camminare solo all’indietro. Ma le cose cambiarono nel 1830 quando, dopo la Rivoluzione di luglio, Carlo X venne deposto e l’ordinamento passò da monarchia legittimista a costituzionale.

Durante la Restaurazione, gli artisti di tutta la Francia inventarono un ricco metalinguaggio di simboli per esprimersi eludendo la censura

Il nuovo Re Luigi Filippo, che governò tra il 1830 e il 1848, si autoproclamò “Re dei Francesi” e annunciò che avrebbe restaurato la libertà di stampa. Le sue promesse però ebbero vita breve: nel giro di pochi mesi il Re promulgò la “Legge che punisce attacchi da parte della stampa sulla legittimità e sull’autorità del Re e della sua legislatura”. I trasgressori rischiavano una permanenza in carcere dai tre mesi ai cinque anni e una multa dai tre ai seicento franchi. La severità delle pene non dissuase però gli oppositori politici — e anzi ispirò diversivi particolarmente ingegnosi.

Alcune delle battaglie vinte dalla censura del XIX secolo sono ben conosciute, come i libri I fiori del male di Baudelaire e Madame Bovary di Flaubert, o la litografia L’esecuzione di Massimiliano di Manet. Al contrario, la battaglia della Pera durò anni, perché il governo, nonostante i numerosi tentativi, faticò a venirne a capo.

Il protagonista di questa storia, Charles Philipon (1800 – 1861), non godeva della notorietà di Baudelaire o Manet, ma aveva un’enorme influenza sulla Francia dell’epoca. Vignettista dal talento mediocre, Philipon aveva presto abbandonato il disegno per l’editoria, fondando diversi periodici in cui comparvero le vignette più memorabili del secolo, firmate dai maggiori artisti francesi del tempo — tra cui Daumier, Gavarni, Grandville e Traviès.

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Philipon supplì al suo limitato talento artistico suggerendo ai suoi artisti soggetti e temi, scrivendo le didascalie dei loro disegni e includendo lunghi testi che ne spiegavano la simbologia, o al contrario la negavano per meglio eludere la censura. Il suo impero includeva la casa editrice Auber e molte riviste periodiche, tra cui La Caricature (1830 – 1835) e Le Charivari (1832 – 1937). Philipon aveva anche un negozio che vendeva i suoi periodici: chi non poteva permetterseli, poteva però godersi le vetrine, che spesso ospitavano delle vere e proprie mostre di opposizione politica.

Se Philipon non fu il primo a utilizzare la pera come simbolo di Luigi Filippo, a lui se ne deve la popolarità. Tutto avvenne in modo piuttosto casuale: a nemmeno un anno dall’incoronazione di Luigi Filippo, La Caricature, recentemente lanciata da Philipon, pubblicò un disegno anonimo e senza titolo che raffigurava un uomo intento a imbiancare un muro pieno di riferimenti alla Rivoluzione del 1830. Il significato politico del disegno era reso indiscutibile da alcuni dettagli. È chiaramente visibile il cartello “Via 29 luglio”, giorno della caduta della monarchia legittimista e dell’installazione della monarchia costituzionale di Luigi Filippo. Un altro cartello recita “Libertà o Morte”, uno slogan della rivoluzione. Il secchio di vernice del muratore porta la scritta “Dupinade”: André Dupin era la più fervida voce conservatrice della Camera dei Deputati, e si opponeva a ogni riforma promessa dalla rivoluzione del 1830. Il destino di Philipon non fu segnato da questi dettagli, ma dall’inconfondibile somiglianza del muratore con Luigi Filippo — una chiara violazione della nuova legge censoria. 

Il disegno era anonimo e fu quindi lui, in quanto editore della rivista, a esserne ritenuto responsabile. Durante il processo, nel novembre 1831, si difese sostenendo che non c’era alcuna prova oggettiva che il muratore rappresentasse il Re. Così, per far vedere che l’accusa non poteva dimostrare la somiglianza con la fisionomia del Re, disegnò una serie di quattro ritratti in cui il volto del Re si trasformava progressivamente in una pera.

La forma del volto di Luigi Filippo, effettivamente, ricordava in qualche modo quella di una pera, ma non è tutto: in francese la parola pera, poire, significa anche “stupido” — anche se alcuni sostengono che questo significato sia nato proprio grazie alla metafora di Philipon. La sua arringa non convinse i giudici, che lo condannarono a sei mesi di prigione e a una multa da 2000 franchi. Non fu il solo: dopo di lui molti artisti – incluso Daumier, il più famoso caricaturista del secolo – finirono in cella per i loro disegni sovversivi.

C’è chi dice che una causa contro la stampa sia una causa persa — se così fosse, questa storia ne è un esempio lampante. Nel primo numero de La Caricature pubblicato dopo il processo, Philipon lanciò una campagna di abbonamenti per pagare la multa e ammonì il governo: “Prima di gioire, aspettate che entrambe le mie mani siano paralizzate”. A partire da quel momento, non fece che promuovere incessantemente il proto-meme della Pera nelle sue riviste. Il successo fu tale che presto la sua fama travalicò i confini nazionali. 

Fu La Caricature a ospitare le pere disegnate da Philipon nel processo, accompagnate da stralci della sua difesa: “Se per identificare il re in una caricatura si fa affidamento esclusivamente su una somiglianza, si cade nell’assurdità. Guardate questi schizzi, che avrebbero dovuto assicurarmi l’assoluzione.” Sotto al primo scrisse: “Condannereste questo disegno perché somiglia a Luigi Filippo?” Sotto al secondo, più astratto, scrisse: “Quindi condannereste anche questo, che assomiglia al primo”. La didascalia del terzo disegno, nonostante la forma fosse già decisamente simile a quella di una pera, recitava: “Allora condannereste anche questo, che somiglia al secondo”. Il quarto disegno è indiscutibilmente una pera. Philipon concluse: “E infine, se vi fate guidare dalla logica, non vorrete mica esonerare questa pera, che ricorda il disegno precedente. Dunque punireste l’autore di una testa grottesca a forma di pera, o di brioche, a cinque anni di prigione e a una multa di 5000 franchi?! Ammetterete, gentiluomini, che ci troviamo davanti a una libertà di stampa molto peculiare”.

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Philipon si affezionò tanto al primo meme della Pera che, quando nel 1834 e 1835 la rivista Le Charivari finì nei guai con la censura, ne fece un poster che inserì all’interno di essa. Da abile uomo d’affari, sfruttò il meme-pera come se fosse un fenomeno di cultura pop, pubblicizzandolo in una pagina de La Caricature: “Le quattro pere disegnate da Philipon all’udienza presso la Corte d’Assise di Parigi, e vendute per pagare la multa di Le Charivari. Prezzo: 2 soldi”.

Se fosse finita lì, la battaglia della Pera sarebbe stata solo una sorprendente nota a pié di pagina nella storia della caricatura. Ma sin da subito Philipon chiese ai suoi artisti di usarlo nelle loro vignette politiche, e così la Pera si diffuse molto più rapidamente di altri proto-meme — e anche al di fuori dell’editoria, tanto che sarebbe impossibile contare le volte e gli ambiti in cui il meme-pera venne utilizzato.

Nel corso degli anni, Philipon imparò a trasformare i suoi processi in spettacoli così sorprendenti che spesso i giudici finivano per assolverlo

Inizialmente il governo rispose ai disegni duramente, per poi adottare, seppur con riluttanza, un approccio più morbido. Nel corso degli anni, Philipon imparò a trasformare i suoi processi in spettacoli così sorprendenti che spesso i giudici finivano per assolverlo. I procuratori persero così tante volte che, da un certo momento in poi, potarono davanti ai giudici solo le sue trasgressioni più palesi. Colpito da nuove condanne, inventò un nuovo meme per eludere e inferocire i censori: la Pera tipografica, ovvero un testo in cui le parole erano disposte in modo da formare l’immagine di una pera.

Nel 1835, dopo il fallimento di un tentativo di assassinio ai danni di Luigi Filippo, il governo approvò le Leggi di settembre, che ripristinarono la censura della Restaurazione e proibirono qualsiasi tipo di discussione sul Re e sulla monarchia: la caricatura politica divenne impossibile. Piuttosto che piegarsi alla legge, Philipon chiuse La Caricature nell’agosto del 1835. Le Charivari riuscì a sopravvivere pubblicando soltanto caricature di costume, e non di politica. Persino il grande Daumier, in quel lasso di tempo, si fece relativamente mansueto. La caricatura politica restò ibernata fino alla Rivoluzione del 1848, quando Luigi Filippo fu deposto e le Leggi di Settembre abrogate.

Philipon chiuse questo capitolo della storia dell’editoria il 27 agosto 1835, pubblicando tre pere tipografiche sull’ultima pagina dell’ultimo numero di La Caricature, sotto il titolo “Altri frutti della rivoluzione di luglio”. I testi a forma di pera recitavano le disposizioni delle Leggi di settembre relative alle immagini stampate: “Nessun disegno, incisione, litografia, medaglia, stampa o emblema di qualsivoglia tipo può essere pubblicato, esposto o venduto senza previa autorizzazione del Ministro dell’Interno o del Prefetto dipartimentale”.

La lettera di congedo agli abbonati della rivista inizia con una nota sardonica: “Dopo quattro anni e dieci mesi di vita, La Caricature soccombe a una legge che ristabilisce la censura, rifacendosi a un articolo della Carta che recita: ‘Non permetteremo che la censura venga ristabilita’”. A seguire attacca gli “apostati della libertà”: “Li abbiamo messi alla berlina nella nostra rivista e li abbiamo esposti senza pietà al ludibrio delle persone stesse che hanno sfruttato. Possono ribaltare le accuse che incombono sulle loro teste, ma non sarà così facile cancellare o far dimenticare le stigmate di ridicolo con cui li abbiamo marchiati negli ultimi cinque anni”. E concludeva: “Il nostro lavoro verrà consultato da chiunque voglia studiare e comprendere i primi anni del regno di Luigi Filippo”.

La storia gli ha dato ragione: è il XXI secolo, ancora lottiamo contro i governanti che pretendono per sé il diritto di essere al di sopra delle critiche, e ancora ridiamo della Pera.

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