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Mia nonna, la rivoluzione

Internet ha cambiato per sempre il modo in cui i movimenti civili nascono, si diffondono e operano.

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Quando mia nonna aveva tredici anni, e viveva in una piccola città turca sulla costa mediterranea, vinse una borsa di studio per il più prestigioso collegio di Istanbul. Solo due anni prima la sua famiglia le aveva detto che, con la fine della quinta elementare, la sua educazione formale si era conclusa: per essere una ragazza, aveva ricevuto un’istruzione più che sufficiente. Era ora di sposarsi, non di studiare geometria o storia.

Mia nonna non conosceva la sua data di nascita esatta. Sua madre le aveva detto che era nata nel periodo in cui l’uva veniva raccolta e pressata nella melassa in attesa dell’inverno, quando in città arrivò la notizia della proclamazione della nuova Repubblica di Turchia. Era l’autunno del 1923, e un nuovo mondo stava lottando per emergere dalle rovine della Prima guerra mondiale: un momento di transizione e cambiamento per la Turchia, per la sua famiglia, e per lei.

Il nuovo governo, nato dalle ceneri del fatiscente impero ottomano, si impegnò a modernizzare il paese, emulando i sistemi europei: costruì scuole, standardizzò l’istruzione e mandò nuovi insegnanti nelle scuole di tutto il paese — anche nelle province più remote. Uno di quegli insegnanti ricordò di una brillante studentessa che era stata strappata da scuola e, senza dirlo alla sua famiglia, la iscrisse a un concorso nazionale per ragazze di talento. “Poi, il mio nome apparve su un giornale”, mi disse mia nonna. Mi raccontava spesso questa storia, commuovendosi ogni volta.

Il fatto che l’insegnante di mia nonna prevalse sulla sua famiglia fu un piccolo miracolo che testimonia l’instabilità di quell’epoca. Così, la nonna salì su un treno diretto nella lontana Istanbul per frequentare una scuola d’élite. Qui trovò dozzine di ragazze brillanti che erano giunte da tutto il paese con un viaggio simile al suo. Le giovani trascorsero il loro primo anno un po’ frastornate, immerse in un’esperienza completamente nuova. Eccellevano in tutte le materie, tranne una: il turco, la loro lingua madre.

Non era una questione di mancanza di intelligenza o di impegno. Il problema aveva le sue radici in qualcosa che oggi diamo per scontato. All’epoca in Turchia, infatti, non esisteva una sfera pubblica nazionale con una lingua uniforme. Senza i mass media e un forte sistema educativo nazionale, le lingue non erano altro che dialetti, che differivano da città a città per pronuncia, vocabolario e regole grammaticali. Le studentesse non parlavano il “turco di Istanbul”, che si sarebbe affermato solo nei decenni a seguire.

Come le sue compagne, anche mia nonna era cresciuta senza alcuna reale esposizione ai mass media, perché non raggiungevano il suo paesino. Le prime trasmissioni radiofoniche duravano poche ore al giorno e venivano trasmesse solo in alcune grandi città. L’istruzione di massa standardizzata era agli albori. I giornali esistevano, ma pochi li leggevano, e mia nonna ne aveva accesso solo di rado. Senza quelle tecnologie, il suo mondo e la sua lingua erano limitati alla piccola città in cui era nata e alle persone che in quello spazio si vedevano ogni giorno.

Al giorno d’oggi è quasi impossibile pensare che i cittadini di una stessa nazione abbiano difficoltà a capirsi. Ma il fatto che così tanti di noi si capiscano e abbiano argomenti comuni da discutere su scala globale è qualcosa di piuttosto recente. Perfino una lingua europea come il francese è stata standardizzata nella sua versione parigina – derivata da un miscuglio di dialetti – solo dopo la nascita della Repubblica francese e l’ascesa dei mass media. Il filosofo e storico Benedict Anderson definisce questo fenomeno di unificazione “comunità immaginate”.

Persone che non potrebbero mai conoscersi o incontrarsi dal vivo, oggi, arrivano a identificarsi come parte di uno stesso gruppo tramite il consumo condiviso di mass media, come i giornali, e attraverso istituzioni e programmi nazionali comuni. Il passaggio da comunità che esistono solo “faccia a faccia” a comunità identificate con città, stati-nazione e, negli ultimi anni, con un ordine mondiale globalizzato, è una profonda transizione nella storia umana. Chi è nato in questa “comunità immaginata” fatica a riconoscere quanto le nostre esperienze, culture e istituzioni siano state plasmate dalle tecnologie — e in particolare da quelle che influenzano il modo in cui viviamo il tempo e lo spazio. Queste tecnologie alterano la nostra capacità di conservare e veicolare idee e storie, i modi in cui ci relazioniamo e comunichiamo, le persone con cui possiamo interagire, le cose che possiamo vedere e le strutture di potere che governano la comunicazione.

Nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, l’architettura delle nostre società è cambiata grazie ai giornali, alle ferrovie e al telegrafo — e, successivamente, dal telefono, dalla radio e dalla televisione. Oggi, all’inizio del ventunesimo secolo, le tecnologie e le reti digitali (computer, Internet e smartphone) stanno rapidamente alterando alcune delle caratteristiche di base delle società, in particolare nella sfera pubblica, che il sociologo Jürgen Habermas ha definito come un gruppo di persone “riunite come pubblico, che articola i bisogni della società con quelli dello stato”.

Gerard Hauser la identifica come “uno spazio discorsivo in cui individui e gruppi si riuniscono per discutere questioni di reciproco interesse e, ove possibile, arrivare a un pensiero comune”. Ovviamente, però, non esiste una sfera pubblica unica e uniforme. Al contrario, esistono diversi gruppi di persone che si uniscono in condizioni diverse, con entità e potere diversi, spesso formando dei “contro-pubblici” — ovvero gruppi che si oppongono alla sfera pubblica e alle ideologie più egemoniche.

Nei suoi studi, Habermas si è concentrato sulla nascita della sfera pubblica in Europa nel XVIII e XIX secolo attraverso l’interazione e il dialogo tra persone in contesti diversi dall’intimità della casa, specialmente nelle città. Queste ultime possono alterare il modo in cui interagiamo, radunando un gran numero di persone e creando luoghi di interazione esterni rispetto agli spazi privati. La sfera pubblica è stata facilitata dalla nascita di caffè e salotti, dove persone che non erano membri della stessa famiglia si incontravano e discutevano di attualità e di questioni di interesse comune.

Le dinamiche delle sfere pubbliche si intrecciano con le relazioni di potere, le strutture sociali, le istituzioni e le tecnologie che cambiano nel tempo. Mia nonna, ad esempio, non sarebbe mai potuta entrare nella versione turca dei caffè in cui le persone discutevano di politica nella loro comunità poiché erano (e sono ancora) luoghi per soli uomini. I salotti francesi erano frequentati principalmente dai ricchi. Per leggere i giornali bisogna saper leggere, e l’alfabetizzazione non è sempre stata così diffusa. Prima di Internet, “comunicazione di massa” significava che milioni di persone potevano ascoltare lo stesso messaggio nello stesso momento, ma se volevi che il tuo messaggio venisse ascoltato avresti dovuto possedere (o avere accesso) a una stazione radio o televisiva o a un giornale.

Le tecnologie alterano le architetture sociali di visibilità, accesso e comunità. Ma condizionano anche i confini della sfera pubblica, che a sua volta influisce sulle norme sociali e sulle strutture politiche

Le tecnologie alterano le architetture sociali di visibilità, accesso e comunità. Ma condizionano anche i confini della sfera pubblica, che a sua volta influisce sulle norme sociali e sulle strutture politiche. Nel ventunesimo secolo, la sfera pubblica è connessa digitalmente e comprende sia i mass media e gli spazi pubblici – come le piazze e i parchi dove nascono e si svolgono le proteste – che i nuovi media digitali. Con il termine “sfera pubblica in rete” mi riferisco a questa complessa interazione di pubblici, online e offline, tutti intrecciati, multipli, connessi e complessi, ma anche transnazionali e globali. Quando parlo di “sfera pubblica in rete”, così come di “movimenti in rete”, non intendo dire che si trovano “solo online”, e nemmeno “principalmente online”. Intendo dire, piuttosto, che le tecnologie digitali hanno contribuito a riconfigurare sia la sfera pubblica che il modus operandi dei movimenti civili, e che questa riconfigurazione resta valida sia online che offline, sia nell’intersezione tra i due.

Le tecnologie digitali hanno dato vita a nuovi mezzi di comunicazione — grazie ai quali possiamo mettere in contatto persone che non si trovano nello stesso spazio fisico o che non si conoscono affatto, e ci offrono la possibilità ipotetica di aggregare milioni di persone. Le fotocamere dei nostri device hanno aumentato la capacità dei cittadini di documentare le azioni illecite delle istituzioni e hanno consentito di spingere la conversazione oltre il binomio “le autorità hanno detto, gli attivisti hanno affermato”. Anche le autorità hanno cambiato e adattato le proprie tattiche per controllare e plasmare la sfera pubblica, anche se i loro obiettivi sono rimasti simili a quelli di un tempo. Produrre eccessi di informazioni, indurre confusione e distrazione e mobilitare contromovimenti, piuttosto che imporre una censura totale, sono tutte strategie che i governi stanno utilizzando sempre di più per arginare i movimenti per i diritti civili. 

Quelle digitali non sono le prime tecnologie ad avere influenzato il modo in cui interagiamo con lo spazio e con il tempo, né le uniche e ad aver plasmato il nostro senso di comunità, identità e sfera pubblica. Guardare alle transizioni del passato ci aiuta a comprendere la portata di quelle più recenti. La scrittura è stata tra le prime tecnologie a cambiare il rapporto tra le nostre parole e il passare del tempo. Siamo così abituati a scrivere che è difficile immaginare una società senza la scrittura, e ancor di più rendersi conto dell’impatto di questa tecnologia sulla società. Prima della sua invenzione (frutto di un lungo processo, piuttosto che di un singolo evento), le persone facevano affidamento sulla memoria per trasmettere conoscenze o storie. Questa modalità di trasmissione condiziona il tipo di contenuto che può essere trasmesso efficacemente nel tempo e nello spazio: un romanzo o un’enciclopedia possono esistere solo in una società con la scrittura. In una cultura orale, senza alcuna forma di scrittura, dominano la poesia, le ripetizioni e i proverbi, più facili da ricordare a memoria, e quindi da tramandare. 

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La scrittura non è importante solo perché è comoda, ma perché condiziona il potere in tutte le sue forme e in ogni ambito della società. In una società esclusivamente orale o poco alfabetizzata, gli anziani – che hanno più conoscenze, poiché hanno avuto più tempo a disposizione per acquisire e immagazzinare il sapere – hanno più potere rispetto ai giovani, che non possono acquisire nuovo sapere leggendo. Nelle società in cui esiste la stampa, invece, la popolazione ha libero accesso a romanzi, opuscoli ed enciclopedie. La loro circolazione condiziona il tipo di discussioni che si possono avere, il tipo di persone che possono averle e la scientificità delle loro argomentazioni.

Non sono solo le tecnologie dell’informazione ad avere il potere di plasmare le comunità. L’industria dei trasporti non muove soltanto persone, ma anche lettere, giornali e altri mezzi di comunicazione. E altera il nostro senso dello spazio, così come l’architettura delle città e delle periferie. L’ondata di proteste e rivoluzioni che scosse l’Europa nel 1848 non era legata solo alla comparsa di giornali e telegrafi, ma anche alle ferrovie – sempre più numerose all’interno del continente – su cui viaggiavano persone che diffondevano idee, giornali, opuscoli e manifesti.

Nell’arco della vita, mia nonna è passata da un mondo racchiuso all’interno della sua piccola comunità a uno in cui può videochiamare i nipoti dall’altro capo del pianeta a un costo irrisorio. Ha vissuto il suo primo viaggio in treno verso Istanbul (un evento raro per un’adolescente dell’epoca) come un’esperienza sconcertante, e negli ultimi anni ha volato in giro per il mondo. Oggi, sia la sfera pubblica che le nostre comunità immaginarie operano in modo diverso rispetto a qualche decennio fa, figuriamoci un secolo.

Tutto questo è di grande importanza per i movimenti civili. Che abbiano l’obiettivo di cambiare un’opinione diffusa, una legge o un governo, i movimenti civili lottano per intervenire nella vita collettiva, per influenzare la sfera pubblica. Per questo i governi e i potenti fanno di tutto per controllare la sfera pubblica: è un passaggio necessario per esercitare il potere. Quindi, per comprendere i movimenti civili e le loro proteste, è fondamentale comprendere le attuali dinamiche della sfera pubblica. Le tecnologie digitali svolgono un ruolo fondamentale in tutte le fasi della protesta, ma sono particolarmente importanti durante la nascita di questi movimenti.

Nel 2011, a pochi giorni dall’ennesima grande protesta al Cairo, Sana (pseudonimo) e io ci siamo sedute in un bar vicino a piazza Tahrir, dove in pochi mesi erano successe così tante cose. Dopo le dimissioni di Hosni Mubarak l’ottimismo sembrava avere preso il sopravvento tra i manifestanti. La “rivoluzione” veniva usata perfino dalle aziende come slogan per vendere i propri prodotti, tra cui paia di occhiali da sole decorati con i colori della rivoluzione.

Sana proviene da una famiglia egiziana benestante che, come molte altre, aveva mantenuto una posizione fortemente apolitica prima della rivoluzione. A casa sua, di politica, non si parlava mai. Sana era una giovane di talento e frequentava una delle migliori università egiziane, parlava molto bene l’inglese e, come molti suoi coetanei, aveva una visione del mondo molto diversa da quella della vecchia generazione – che ancora governava l’Egitto – e degli anziani che temevano il regime repressivo di Mubarak. Si sentiva in trappola, mi raccontava, ed era frustrata dalla sua famiglia e dai suoi amici, che rifiutavano ogni suo tentativo di discussione, anche blando, sulla politica egiziana. Non riuscendo a trovare un modo per oltrepassare questo confine nel mondo offline, è andata su Twitter.

Solo pochi anni prima, Sana avrebbe dovuto tenere per sé le sue frustrazioni. Sarebbe rimasta isolata, sola e incompresa. Oggi però le tecnologie digitali offrono nuove strade per condividere le proprie idee e per conoscere altre persone che la pensano allo stesso modo. I social media le avevano permesso di incontrare altri giovani politicamente schierati. Davanti a una birra in una caffetteria egiziana alla moda, mi ha spiegato che era andata online per cercare conversazioni politiche più aperte e più inclusive di quelle cui era abituata nella vita offline, e che questo l’aveva spinta a unirsi alle proteste di piazza Tahrir.

Ovviamente persone con le stesse idee si riunivano anche prima di Internet, ma adesso è più semplice farlo, e su una scala più vasta. Per la maggior parte della storia umana, la cerchia sociale è stata per lo più limitata ai membri della propria famiglia e ai vicini di casa: relazioni disponibili, facilmente accessibili e considerate socialmente appropriate. Ma modernizzazione e urbanizzazione hanno eroso molte di queste barriere.

Adesso, le persone sono sempre più viste come individui, e vengono definite sempre meno dalle condizioni in cui sono nate. E cercano sempre più relazioni basate sulla loro individualità, e non solo nel luogo fisico in cui vivono. Invece di relazionarsi con persone con cui condividono ascribed characteristics – che per lo più acquisiamo dalla nascita, come famiglia, razza e classe sociale (sebbene questa possa cambiare nel corso della vita) – molte persone hanno l’opportunità di relazionarsi con altri umani con cui condividono interessi e valori simili. Naturalmente residenza, razza, famiglia, genere e classe sociale continuano a svolgere un ruolo molto importante nella costruzione delle relazioni umane, ma la loro portata e il loro ruolo di meccanismo sociale sono cambiati con l’avanzare della modernità.

Le opportunità di trovare e stabilire relazioni basate su interessi e punti di vista comuni sono strettamente connesse all’architettura stessa delle piattaforme online. Questi fattori – le “affordances” degli spazi digitali – determinano chi può trovare e vedere chi, e in quali condizioni. Non tutte le piattaforme online creano ambienti e opportunità di connessione identiche. Al contrario hanno architetture diverse, esattamente come succede con le nostre città, che condizionano il modo in cui ci muoviamo al loro interno. Se non riesci a trovare determinate persone, non potrai formare con loro una community.

La città, che aggrega molte persone in uno spazio ristretto, e i luoghi di incontro al suo interno, come caffè e salotti, sono importanti per la sfera pubblica proprio perché ne alterano l’architettura e le modalità di interazione tra le persone. La connettività online funziona in modo molto simile ma è un’alterazione ancora più profonda, perché le persone non devono trovarsi nello stesso spazio fisico contemporaneamente per iniziare una conversazione. I salotti e i caffè francesi del diciannovesimo secolo erano per lo più limitati agli uomini della classe media o alta, proprio come le tecnologie digitali degli inizi. Queste però sono diventate molto rapidamente poco costose, e altrettanto rapidamente si sono diffuse tra la popolazione. Sono la nuova piazza della città, il nuovo pozzo del villaggio e il nuovo bar, ma rappresentano anche molto altro. Non perché quando si è online ci si lascia alle spalle razza, sesso e classe sociale, e non perché nella sfera digitale viaggiano idee che non hanno alcun impatto nel mondo fisico. Anzi, queste dimensioni dell’esperienza umana hanno una ricaduta anche nella sfera pubblica. La differenza è la logica di come e dove possiamo interagire; con chi; e a quale scala e visibilità.

Ecco il ruolo che la sfera pubblica digitale può ricoprire: aiutare le persone a rivelare reciprocamente le loro preferenze, altrimenti private, e scoprire un terreno comune

Ora immaginate che ci sia uno strumento che vi permette di segnalare la vostra noia o il vostro disgusto non solo a chi vi sta a fianco, ma anche a tutte le altre persone presenti in una stanza. Immaginate che le persone possano annuire o “mettere mi piace” ai vostri brontolii sulla qualità dell’evento a cui state partecipando, e al contempo rendervi conto che molte altre persone presenti nella stanza si sentono allo stesso modo. Quella persona seduta in un posto angusto nella fila centrale non si sente più sola e isolata, ma viene rapidamente affiancata da decine di persone che, con una voce unica, dichiarano la loro noia.

Ecco il ruolo che la sfera pubblica digitale può ricoprire: aiutare le persone a rivelare reciprocamente le loro preferenze (altrimenti private) e scoprire un terreno comune. Allo stesso modo, le proteste di piazza mostrano alle persone che non sono sole nel loro dissenso. Ma i media digitali fanno sì che ciò accada in un modo che offusca i confini tra privato e pubblico, tra casa e strada, tra azione individuale e collettiva.

Nei regimi repressivi, l’ignoranza pluralistica gioca un ruolo fondamentale nel mantenere spaventate e compiacenti le persone al loro interno; oggi le tecnologie di rete rappresentano una grave minaccia per quei regimi. Anche in assenza di repressione, l’ignoranza pluralistica esiste; tuttavia, il suo effetto è più debole poiché le persone hanno minore necessità di nascondere le proprie convinzioni. La possibilità che l’ignoranza pluralistica possa essere messa in discussione è una delle ragioni per cui il governo cinese, per esempio, emette condanne pluridecennali ai blogger e spende enormi somme di denaro (impiegando centinaia di migliaia di persone) per controllare e censurare Internet. Un singolo blogger non rappresenta una grande minaccia. Ma se una persona è autorizzata a pubblicare liberamente le sue idee online, presto potrebbero essere seguita da altre centinaia di migliaia, e tutte potrebbero scoprire di non essere più sole.

Questo è un aspetto cruciale di quello che è successo in Egitto, che ha portato alla rivolta nel 2011. Grazie a una pagina Facebook, forse per la prima volta nella storia, un utente di Internet potrebbe accettare un “invito elettronico” a unirsi alla rivoluzione. Centinaia di migliaia lo hanno fatto, mostrando le proprie idee alle loro reti più o meno forti di connessioni digitali. Il resto è storia. Una storia complessa e ancora incompiuta, con alti e bassi. Ma per l’Egitto, così come per il resto del mondo, le cose sono cambiate per sempre.

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